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Cosa cambia dopo l’espulsione di Palamara?

Palamara

I Graffi di Damato sull’espulsione di Palamara dal sindacato delle toghe come Chiesa dal Psi nel 1992

Considerati il ruolo già rilevante assegnato loro dalla Costituzione e quello che si sono presi da soli sostituendosi ai politici in ritirata volontaria, o imposta da Procure e Tribunali che se ne occupavano spesso a ragione, per carità, ma altrettanto spesso anche a torto, i magistrati ne hanno preso tutti i difetti, addirittura peggiorandoli.

All’indomani, o quasi, del monito opportunamente rivolto anche a loro, come ai politici, a non “ripiegarsi su se stessi”, i magistrati nel loro organismo associativo hanno cercato di risolvere sbrigativamente il problema delle loro pessime abitudini emerse dal caso di Luca Palamara, già presidente del sindacato delle toghe e consigliere superiore della magistratura, espellendolo. E negandogli anche il diritto alla difesa con i soliti cavilli regolamentari: quelli della sede in cui l’interessato avrebbe dovuto intervenire con la sua “memoria” peraltro già scritta. Egli avrebbe dovuto rivolgersi al collegio dei probiviri, promotore della espulsione, anziché al comitato direttivo, limitatosi a ratificarla.

Pensare di risolvere il problema Palamara espellendone l’attore, con quello che il pensionato ma attivissimo Giancarlo Caselli, fra interviste e articoli, ha definito “un colpo di reni per tentare di raddrizzare una situazione da default”, ricorda l’errore compiuto dal mio amico Bettino Craxi nel 1992 cercando di liquidare il problema della cosiddetta Tangentopoli — la città delle tangenti affollatissima di gente  di ogni partito, come poi avrebbe denunciato alla Camera — espellendo l’appena arrestato Mario Chiesa dal Psi e definendolo “mariuolo” in un comizio. È noto come poi sarebbe finita la storia: dalla loquacità dell’espulso con gli inquirenti alla fine del Psi, di tutti gli altri partiti al governo da più di 40 anni e della stessa, cosiddetta Prima Repubblica.

Anche Palamara ha annunciato di non volere essere “il capro espiatorio” di una situazione di  cui sono responsabili anche quelli che lo hanno appena cacciato. Ed ha  cominciato a  fare nomi in dichiarazioni e interviste, fra le quali spicca senz’altro quella raccolta per Repubblica da Liana Milella. “Palamara kamikaze”, ha titolato  in rosso Il Giornale. “I giudici che mi hanno fatto fuori sono lì solo grazie alla politica”, ha titolato La Verità con le parole dell’interessato.

So bene, senza che ce lo ricordi Caselli, che Palamara e simili non hanno trafficato in tangenti, essendo già caduta l’accusa rivolta all’ex presidente dell’associazione dalla Procura di Perugia di avere intascato non ricordo quante decine di migliaia di euro per la promozione di un collega, ma il traffico di posti, di incarichi, di carriere e di relative inchieste di cui gli interessati si erano occupati o erano destinati ad occuparsi, non è meno grave di un traffico tangentizio. Forse lo è ancora di più per gli effetti sociali e istituzionali. È assurdo non capirlo, o fingere di non capirlo.

In questa situazione, senza volere mancare di rispetto personale ad Eugenio Scalfari e alla sua veneranda età, ho trovato strabiliante che il fondatore di Repubblica abbia preferito dedicare il suo abituale appuntamento domenicale con i lettori occupandosi con più di un anno  di anticipo della cosiddetta corsa al Quirinale. Lo ha fatto anticipando la confidenza fattagli da Mattarella di non volersi fare confermare ed auspicandone la sostituzione con Giuseppe Conte per liberare, finalmente, Palazzo Chigi e consentirvi l’arrivo di Mario Draghi. Stavolta Scalfari non ha proprio azzeccato, diciamo così, l’attualità.

 

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