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Il caso Franco

Silvio Berlusconi

I Graffi di Damato sulla vicenda della condanna definitiva di Silvio Berlusconi nell’estate del 2013 per frode fiscale, approdata nell’aula della Camera con gli striscioni dei deputati di Forza Italia e con la loro richiesta a gran voce di una commissione parlamentare d’inchiesta

Approdata nell’aula della Camera con gli striscioni dei deputati di Forza Italia e con la loro richiesta a gran voce di una commissione parlamentare d’inchiesta, la vicenda della condanna definitiva di Silvio Berlusconi nell’estate del 2013 per frode fiscale — che gli costò la decadenza da senatore, seguita dai servizi sociali e  da una progressiva decadenza politica ed elettorale — è forse destinata a produrre più carta, stampata e bollata, che altro.

Non aiuta certo la circostanza, non a caso cavalcata subito dal Fatto Quotidiano con la formula e il titolo in giallo del “Morto che parla”, della materiale impossibilità, intervenuta appunto per il suo decesso l’anno scorso, che Amedeo Franco confermi il vecchio audio registrato da Berlusconi. Al quale confessò di avere appena partecipato praticamente come giudice di Cassazione ad una condanna ingiusta, a dir poco. Che si sarebbe tradotta, per le premesse e gli sviluppi politici, in un colpo di Stato.

LA CONFERMA DELLA CASSAZIONE

La Cassazione si è affrettata a confermare la firma apposta dallo stesso Amedeo Franco, con gli altri quattro giudici della sezione “feriale” della Corte, a tutte le 207 pagine della sentenza penale, poi contraddetta peraltro da una sentenza civile riguardante uno dei tanti aspetti di quella vicenda chiusa ai danni di Berlusconi, peraltro mentre stavano per scadere i termini della prescrizione.

I titoli dei giornali più o meno direttamente schierati per motivi politici o garantistici a favore del fondatore e tuttora presidente di Forza Italia si sono naturalmente sprecati, come anche i silenzi sulle prima pagine dei cosiddetti “giornaloni”, intesi come quelli più diffusi. Dove tuttavia, in  particolare nei casi della Stampa e dell’ormai quasi consanguineo Secolo XIX, il buon Mattia Feltri ha potuto ugualmente esprimere la sua mancata sorpresa o incredulità, diciamo così. Che è anche la mia, perché dopo tutto quello che è venuto fuori sulle pratiche, abitudini e quant’altro di almeno una parte della magistratura dalla vicenda e dal telefonino “troiano” dell’ex pubblico ministero, ex segretario del sindacato delle toghe ed ex consigliere superiore della stessa magistratura Luca Palamara, tutto francamente ci può stare. Proprio tutto: anche  la sostanziale congiura contro il Berlusconi tornato politicamente in gioco e nella maggioranza di governo nel 2013, il “plotone di esecuzione” cui il compianto Amedeo Franco accettò di partecipare addirittura come relatore, e tutto il resto.

LA CREDIBILITÀ DELLA MAGISTRATURA

La credibilità della magistratura è ormai ridotta a condizioni, diciamo, di estrema precarietà. E solo la ormai provata miscela di incompetenza, faziosità, approssimazione e persino incoscienza della nostra classe o casta politica — come la chiamano i grillini, che ormai vi partecipano tenendosi ben strette tutte le poltrone di governo e sottogoverno che hanno potuto occupare negli ultimi due anni — può spiegare come e perché non  sia stata già non dico proposta dal guardasigilli ma approvata dal Parlamento una radicale riforma del Consiglio Superiore della Magistratura, con annessi e connessi.

Berlusconi, come tanti altri in Italia, cerca il suo “giudice a Berlino”. Che non è naturalmente la cancelliera Angela Merkel. La quale da presidente di turno dell’Unione Europea è peraltro giudice di tante cose italiane per altri versi, fortunatamente non penali, ma non meno importanti per i nostri destini nazionali.

 

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