Da Filosa a Imparato, è già partita la corsa su chi sarà il successore di…
Il triste ritorno (giudiziario e mediatico) di Tangentopoli
I graffi di Damato sulle retate, dal Nord al Sud, fra arresti e liste di indagati per corruzione che stanno riempiendo le cronache giudiziarie e politiche
È accaduto giusto in tempo, e naturalmente solo a caso, nella solita galeotta coincidenza, perché il vice presidente grillino Luigi Di Maio potesse sventolare, diciamo così, la bandiera della emergenza corruttiva attorno al Consiglio dei Ministri chiamato a chiudere con la rimozione la pratica di governo del sottosegretario leghista Armando Siri, sotto indagine per corruzione, appunto, alla Procura della Repubblica di Roma. Parlo naturalmente delle retate, dal Nord al Sud, fra arresti e liste di indagati per corruzione, pure loro, che stanno riempiendo le cronache giudiziarie e politiche insieme, visti i riflessi inevitabili sulla campagna elettorale a meno di venti giorni dal rinnovo del Parlamento Europeo e di numerose amministrazioni locali: un test dai notevoli riflessi, a sua volta, sulle sorti del governo gialloverde, della maggioranza e forse anche della legislatura cominciata solo l’anno scorso.
TUTTE LE OPERAZIONI IN CORSO
Scrupoloso come sempre, e affiancato dal solito fotomomtaggio con le inferriate e titolo incorporato sulla preda politica più grossa di tutte le operazioni, cioè il centrodestra che “ritorna a San Vittore”, mandando di traverso la convalescenza -credo- a Silvio Berlusconi, il direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio con poche parole, come un redivivo Tacito, ha dato il quadro della situazione. Che è questa: 95 indagati a Milano, di cui 28 arrestati, per tangenti e altri reati, 20 inquisiti a Catanzaro per mazzette, 14 a Palermo, di cui 4 arrestati, per gli stessi o analoghi motivi.
Questo -ha avvertito Travaglio, e probabilmente ripeteranno parecchi dirigenti del Movimento delle 5 Stelle in questa consistente e fortunata, per loro, coda della campagna elettorale- è “il vero cancro che si mangia l’Italia e ne blocca la crescita”. E così sono serviti anche i sapientoni di Bruxelles e dintorni che sono appena tornati a segnalare i nostri ritardi, con quell’impietoso ultimo posto assegnatoci nella graduatoria dei paesi dell’Unione Europea per l’andamento del pil, dandoci comunque la soddisfazione, stavolta, di rilevare qualche ritardo anche in Germania.
IL RITORNO DI TANGENTOPOLI
È augurabile che questo “ritorno di Tangentopoli”, o a Tangentopoli, come si è scritto e titolato su molti giornali, se mai davvero l’Italia ne è uscita dopo le retate del 1992 e 1993, allora anche con la musica di accompagnamento delle stragi mafiose, non ci riproponga davvero tutti gli spettacoli ed effetti di quegli anni lontani: suicidi, cappi in Parlamento, linciaggi in piazza, torsioni al sistema istituzionale e via dicendo.
Allora cadde la cosiddetta prima Repubblica e si fornì la prospettiva di una seconda anch’essa smarritasi però per strada, tra riforme mancate o bocciate. Ora rischia di essere strangolata in culla la terza Repubblica, fra l’entusiasmo paradossale di quanti -i grillini- se ne erano assunti l’anno scorso la paternità. Essi non si rendono conto che rischiano in queste ore di festeggiare anche la loro fine, scommettendo che a pagarne le spese maggiori siano i loro provvisori e sempre più scomodi alleati, cioè i leghisti.
UNO SPETTACOLO GIÀ VISTO
Anche questo, ahimè, è uno spettacolo già visto un quarto di secolo fa, quando -per esempio- comunisti e sinistra democristiana pensarono di avere risolto tutti i loro problemi politici, identitari e di potere, e di garantirsi finalmente un luminoso e insieme fortunoso avvenire, liberandosi di Bettino Craxi e dei socialisti con le cattive, e stendendosi come tappetini davanti alle Procure della Repubblica, sino a far perdere la testa a qualcuno che vi lavorava o ad allarmare i più avveduti.
Non dimenticherò mai la preoccupazione pubblicamente espressa dall’allora capo della Procura della Repubblica di Milano, Francesco Saverio Borrelli, per quelle ali di folla plaudenti, reali e metaforiche, fra cui lui e i suoi sostituiti si muovevano. All’occorrenza però essi protestavano tutti insieme minacciando dimissioni, e reclamando il favore del popolo in maglietta, ma anche in doppiopetto. Accadeva ogni volta che il governo o il ministro di turno osasse preparare o varare misure non condivise dall’ormai onnivoro potere giudiziario.