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Perché non nominare Calenda commissario Ilva?

Ex Ilva Tar Lecce

Si rincorre l’ipotesi di Carlo Calenda commissario Ilva, dopo l’endorsement di Nicola Zingaretti. L’ex titolare del Mise uno dei più attivi sul dossier. L’articolo di Annarita Digiorgio

È da un paio di giorni che è montata prima nel web e poi nelle redazioni una indiscrezione, se non proprio una moral suasion, che  vorrebbe Carlo Calenda commissario Ilva. A conferma che la voce fosse fondata è arrivata l’ufficialità dell’ex segretario di Partito di Calenda. Ex perché nel frattempo l’ex ministro è uscito dal Pd formando il movimento Siamo Europei, cui ha aderito anche l’ex mandatario elettorale del Partito Democratico Matteo Richetti.

LA DICHIARAZIONE DI ZINGARETTI

Martedì sera durante la trasmissione televisiva condotta da Giovanni Floris su la7, Nicola Zingaretti ha dichiarato a chiare lettere: “Se Carlo Calenda volesse dare una mano a questo governo, perché non utilizzarlo in alcune situazioni di difficoltà di grandi aziende? Perché dobbiamo avere paura di rimanere chiusi negli steccati di quello che siamo?”. Al ché Floris ha palesato l’indiscrezione chiedendo al Segretario del Pd: “Calenda commissario Ilva?”E Zingaretti ha annuito: “Credo che lo spirito che bisogna avere è la passione nel risolvere i problemi”.

LA DISPONIBILITÀ DI CALENDA

Subito dopo il blocco pubblicitario in studio è arrivato lo stesso Carlo Calenda che si è detto disponibile a dare una mano su  Ilva, ma a titolo gratuito.

Del resto fino ad oggi, durante il mandato di governo ma anche dopo, è sempre stato uno dei più attivi sul dossier.

Il suo impegno parte dal 2016, quando nominato al Mise in sostituzione della dimissionaria Guidi, ed essendosi liberato anche del suo capo di gabinetto (poi richiamato da Di Maio) Vito Cozzoli, prese subito direttamente in mano il fascicolo.

L’IMPEGNO SUL DOSSIER ILVA

Fu lui ad indire il bando e la gara europea, e portare a conclusione l’acquisizione. Aveva finalmente trovato, cosa che ancora oggi ripete, un investitore estero che era disposto a impiegare 4 miliardi nel sud Italia, di cui oltre due solo di investimenti per impianti e ambiente.

Il tutto lo fece in solitaria, durante quei lunghi mesi di lotte intestine soprattutto alla maggioranza di governo, se non di partito, che lo lasciò a subire gli attacchi social e tv soprattutto del governatore della regione Puglia Michele Emiliano che contro quel dpcm fece ricorso continuandolo a chiamare il ministro “schiavo delle lobby”. Matteo Renzi che pure era segretario del Pd all’epoca — mentre nel frattempo alla Presidenza del Consiglio era arrivato Paolo Gentioni — non intervenne mai tranne una volta con un tweet offrendosi di portare le orecchiette in una cena con i due. Cosa mai avvenuta.

Il motivo del silenzio di Renzi era in parte dovuto — come viene confermato in questi giorni — ma come già all’epoca si sapeva, al fatto che il segretario del Pd tifava, ironia della sorte come lo stesso Emiliano, per l’altra cordata, quella guidata da JIndal, e che vedeva tra i soci anche il grande amico di Matteo Renzi Leonardo Del Vecchio.

LA GARA INDETTA DA CALENDA

La gara fu regolare, come accertato dall’avvocatura successivamente, e quindi fu Calenda a siglare il contratto di affitto, nonché il successivo dpcm 2017, con il piano industriale. Ma ciò che avrebbe davvero reso operativo il contratto, era l’accordo sindacale. Che a Calenda saltò. Erano i giorni convulsi dopo la elezioni. Nel mandato ad interim guidato ancora dal vecchio governo Calenda riconvocò i sindacati al tavolo per cercare di chiudere l’accordo. La trattativa durò per tante sedute notturne. Lui voleva evitare il rischio che con i 5 Stelle primo partito, in procinto di trovare un’alleanza con qualcuno per la formazione di un governo, viste le dichiarazioni di chiusura e riconversione a parco giochi fatte in campagna elettorale da Grillo (mai da Di Maio in realtà), la cessione potesse saltare e Ilva essere chiusa.

Le trattative dunque proseguirono finché un sindacato, la Uilm ed espressamente il suo segretario Rocco Palombella, a un certo punto disse a Calenda “non trattiamo più con te perché il tuo mandato è scaduto”. Al che Calenda si alzò ed abbandono il tavolo, le trattative, e la possibilità di mettere la sua firma a quel contratto che per lunghi mesi aveva condotto.

Emiliano dirà che fu lui a convincere i sindacati a far saltare il tavolo, cosa né confermata né smentita.

Dovettero passare altri sei mesi, tra ricorsi all’avvocatura dello stato, e delitti perfetti, per riuscire il 6 settembre Di Maio a chiudere l’accordo.

L’ACCORDO CHIUSO DA DI MAIO

Che modificò quello del precedente ministro. Innanzitutto saltò il Protocollo con il Comune di Taranto (parte integrante dell’accordo) che prevedeva  a spese di Ilva in As la redazione della vds, biomonitoraggi, studi epidemiologici, un fondo sociale per Taranto di 30 milioni l’anno, misure per l’indotto e di mitigazione.

Il numero dei lavoratori assunti da Mittal invece passò da 10 mila a 10.700, e gli esuberi incentivati da 2000 a 2.500. Ma Dimaio fece saltare la newco guidata da Invitalia che Calenda aveva previsto per le bonifiche e per l’assunzione di 1500 lavoratori esclusi da Mittal, fissandone il nuovo accordo solo 300 alle dipendenze di Ilva in As per le bonifiche delle aree escluse. Bonifiche che non sono mai partite. E lavoratori che non sono mai stati assunti. Da oltre un anno.

A vederla oggi, che di quei 10.700 di Mittal, 1.300 sono diventati cassintegrati (non previsti da contratto)  e di quei 300 su altri 3100 di Ilva in as nessuno è stato reimpiegato, ma soprattutto visti gli eventuali annunciati esuberi, se Mittal dovesse restare, che si prefigurano nella misura dei 5000, col piano Calenda ora gli unici sicuri sarebbero stati quei 1500 di Invitalia.

Ad oggi i Commissari Ilva in As sono ancora responsabili delle cosiddette aree escluse, cui avrebbero dovuto procedere a bonifica, mai iniziata. Tra queste le famose collinette dei tamburi. Del resto non brillano di esperienza, e ancora misteriosi restano i loro criteri di nomina, come PolicyMaker vi aveva raccontato settimane fa. Ma oggi il loro ruolo potrebbe ritornare cruciale se come indicato nella lettera di Arcelor Mittal, Ilva dovesse tornare nelle loro mani.

Un’eterogenesi dei fini per il confindustriale liberale che però ha ammesso di aver cambiato idea sull’intervento dello Stato nel mercato, “dopo trent’anni di Alesina e Giavazzi, quando ho avuto davanti l’operaio dell’Embraco”. Figurati quando rincontrerà quelli di Ilva.

 

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