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Lo spread e la crisi della legittimità politica

L’analisi di Lorenzo Castellani, Ricercatore presso la Luiss.

Ci sono alcune domande scomode che nessuno vuole porsi. Ad esempio, da anni viene ripetuto da Commissione Europea e organizzazione internazionali che servono “riforme strutturali”, formula vaga e generalista (nel senso che ogni paese disegna riforme sulla base dei propri problemi e delle proprie tradizioni), ma queste riforme vengono rigettate parzialmente o totalmente da tutti i partiti che sono andati al governo negli ultimi anni. Quelle realizzate in Italia, come la riforma Fornero delle pensioni, sono state minate da tutti i partiti (ha iniziato il Pd con l’ape social e poi via tutti gli altri in campagna elettorale). Le elezioni sono state vinte da chi ha promesso di abolirla. Il jobs act, riforma plaudita da stampa e organizzazioni internazionali, è una policy controversa i cui risultati di lungo periodo non sono ancora chiari. Infatti, il mercato del lavoro è iperflessibile (aumentano i determinati), ma il jobs act mirava a stabilizzare dopo i tre anni di tutele crescenti. Quindi tecnicamente non ha raggiunto il suo obiettivo.

L’ELETTORATO RIGETTA LE RIFORME PRESCRITTE A LIVELLO INTERNAZIONALE

Al di là dei dettagli sulle policy esiste, comunque, un problema di fondo che in troppi non vogliono vedere, soprattutto tra chi scrive, analizza o segue la politica e l’economia: l’elettorato rigetta le riforme prescritte a livello internazionale, la loro parziale realizzazione non ha rimesso il paese sulla via della crescita, non ha ridotto il debito pubblico che da Monti ad oggi è costantemente aumentato. Le riforme del governo tecnico hanno placato lo spread in quella fase e momentaneamente “salvato” i conti pubblici per qualche anno. Poi i vecchi partiti si sono rimessi sul sentiero precedente, costitutivo della tradizione politica italiana, e quelli “nuovi” lo hanno estremizzato. L’elettorato è andato (e va) nel senso contrario a quelle riforme e, di fatto, a quella cultura di fondo incentrata sulla disciplina dei conti pubblici e sull’apertura economica globale. Gran parte del paese ha perso la sfida della globalizzazione e la rigetta, con sempre maggior foga. Nel frattempo si è diffusa l’impressione di una politica “con le mani legate”, cioè incapace di risolvere i due problemi fondamentali: la sicurezza dei conti pubblici/riduzione del debito, il miglioramento delle condizioni economiche (crescita). Nessuno vuole sacrificarsi per i conti pubblici (dopo Monti) poiché la stragrande maggioranza degli italiani non crede che questo possa produrre crescita. A livello elettorale la sottovalutata emergenza immigrazione ha fatto il resto. Ora ci troviamo con un governo che cerca di fare quello per cui è stato votato e lo spread che torna a salire. L’aumento del costo del debito, se prolungato, potrà forse ricondurre a più miti politiche il governo (non ci credo molto), ma restano grandi problemi di fondo (e non per il “golpe degli incompetenti” come molti credono: quello è un sintomo, non la malattia).

STIAMO VIVENDO UNA GIGANTESCA CRISI DI LEGITTIMITÀ DELLE ISTITUZIONI NAZIONALI E, IN PARTICOLARE, SOVRANAZIONALI

La domanda centrale mi pare sia si possono conciliare i vincoli della finanza internazionale, le regole europee, la politica delle mani legate, le riforme chieste dalle istituzioni sovranazionali con la riottosità e i desideri dell’opinione pubblica e con un consenso crescente nella direzione opposta alle riforme prescritte? Ecco, questo è il quesito evaso da gran parte dei partecipanti al dibattito pubblico. Certamente non si può ignorare lo spread, ma nemmeno dove si collocano le domande politiche e, di conseguenza, la infattibilità di certe riforme. Tutti tacciono su un fatto sempre più evidente: stiamo vivendo una gigantesca crisi di legittimità delle istituzioni nazionali e, in particolare, sovranazionali. Tradotto nella lingua popolare, fino a quindici anni fa il “ce lo chiede l’Europa” era un “proviamo a fare meglio”, fino a sette anni fa era un “sacrifichiamoci per salvarci”, oggi è un “…nulla è cambiato”. Le riforme del vecchio establishment europeo sono non azionabili in un paese come l’Italia e nemmeno l’intervento della Troika riuscirebbe a farle passare poiché il Parlamento le respingerebbe/smonterebbe. Per farle andrebbe sospesa la democrazia e ripristinato l’uso della violenza pubblica, due opzioni difficili da percorrere nel ventunesimo secolo. Lo stesso discorso vale per le istituzioni internazionali e persino per la finanza.

IL LIBERALISMO POLITICO PUÒ ESSERE LA VITTIMA SACRIFICALE DELL’ATTRITO TRA RISPARMIATORI E FINANZA

Il “risparmiatore” non è una categoria politica, ma economica e questo la classe dirigente farebbe bene a capirlo in fretta. Risparmiatori siamo tutti, ma ciò non conta a livello politico. Infatti i “risparmiatori”, nonostante mesi di terrorismo psicologico, se ne sono allegramente infischiati di Brexit, di Trump, dell’Unione Europea (Grecia, Italia). Allo stesso modo l’organizzazione finanziaria del mondo se ne frega che governi un tecnocrate o un populista, l’importante è che ci sia un rischio considerato sostenibile. Questo attrito tra le due sfere è potenzialmente mortale: perché stanno tornando i nazionalismi? Perché la credibilità di certe istituzioni è sempre più compromessa? Perché la mentalità del complotto si è così diffusa? Perché in nome di una comunità nazionale posso chiedere (forse) un grande sacrificio ed avere la forza necessaria per fregarsene dei mercati e delle istituzioni sovranazionali. Il liberalismo politico può essere la vittima sacrificale di questo attrito, sia che vincano ancora di più i populisti sia che arrivi la troika. Un regime politico ha molte difficoltà a sopravvivere quando le due forze più potenti, consenso politico da un lato e capitalismo finanziario dall’altro, vanno in direzioni opposte. Questo è lo scenario da affrontare nei prossimi anni, a cui si aggiunge quello geopolitico, senza scadere nella tifoseria, indipendentemente da come la si pensi: risolvere la crisi di legittimità politica prima che questa ci travolga tutti.

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