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Tutte le tensioni nel governo Conte fra M5s e Lega

I Graffi di Francesco Damato sulle tensioni interne al Governo Conte

Nata nel mondo extraparlamentare di sinistra nel 1969, dissoltasi come movimento nel 1976 e sopravvissuta sino al 1982 come testata giornalistica, Lotta Continua è tornata a vivere di recente come stile o metodo di vita politica: prima nel Partito Democratico e poi nella maggioranza gialloverde del governo di Giuseppe Conte.

I danni procurati col cosiddetto fuoco amico al Pd si sono visti nel referendum del 4 dicembre 2016 sulla riforma costituzionale tentata dal governo di Matteo Renzi e nelle elezioni politiche del 4 marzo 2018. E non è finita perché, per quanto ridotto ben sotto il 20 per cento dei voti, dal quasi 41 cui lo aveva portato Renzi nelle elezioni europee del 2014, il maggiore partito della sinistra continua a vivere più di risse interne che d’altro.

Il percorso del congresso appena imboccato con le dimissioni formali del segretario ex reggente Maurizio Martina sembra contrassegnato dalla volontà dei vari candidati alla segreteria, effettivi e potenziali, di contrapporsi o distinguersi da Renzi, che pure non è in corsa, piuttosto che dalla capacità di formulare una proposta politica, di programma e di alleanze, alternativa alle sue idee. E’ una situazione paradossale, a dir poco, che lascia ben poche speranze a chi ancora vorrebbe aiutare il Pd a riprendersi. E ne lascia molte invece ai sostenitori della maggioranza gialloverde, insidiabile più da sinistra che dal centrodestra spaccatosi con Salvini al governo e Silvio Berlusconi all’opposizione.

Ma il guaio, per i sostenitori della combinazione grillo-leghista, che pure sono tanti stando ai sondaggi, da cui il governo Conte è appena uscito col 58 e rotti per cento dei voti di cosiddetto gradimento, è che Lotta Continua vive e prospera anche da quelle parti. Non vi è giorno, e persino ora del giorno, senza che non scoppi una grana fra il movimento grillino delle 5 stelle e la Lega, o all’interno di essi, specie del primo, dove la confusione è sempre stata di casa ma va aumentando man mano che l’azione di governo mette a nudo la debolezza o l’irrealismo delle costosissime promesse elettorali.

Non si era ancora spento, anzi non si era spento per niente il fuoco scoppiato attorno ai dubbi espressi dal potente sottosegretario leghista a Palazzo Chigi Giancarlo Giorgetti sulla fattibilità del cosiddetto reddito di cittadinanza, che invece il vice presidente grillino del Consiglio Luigi Di Maio vorrebbe far trovare sotto l’albero di Natale ai suoi elettori con tanto di decreto legge, e se n’è acceso un altro, di fuochi, sulla prescrizione da bloccare alla sentenza di primo grado.

“Una bomba atomica sui processi”, ha gridato con orrore la ministra leghista della pubblica amministrazione Giulia Bongiorno. Che di processi s’intende bene come avvocato e sa di quanto potrebbero allungarsi, praticamente all’infinito, senza la prescrizione appunto, lasciando gli imputati appesi alla corda dei tribunali per tutta la vita.

Per il ministro grillino della Giustizia Alfonso Bonafede – pure lui avvocato ma meno abituato della sua collega di governo e di professione ai processi, non foss’altro per i dieci anni in meno di attività, senza volere esprimere alcun giudizio sul merito – sarebbe invece la prescrizione lo scandaloso ostacolo alla sete di giustizia degli onesti, e la garanzia dell’impunità dei disonesti.

Entrambi i lottatori si richiamano al famoso “contratto” di governo stipulato fra i loro partiti: l’una per negare che la misura proposta dall’altro vi sia contenuta, e il guardasigilli per sostenere il contrario interpretando a suo modo la formula ovviamente generica adottata nelle trattative di governo per rinviare ogni decisione.

Nella disputa Salvini avrebbe forse voluto soccorrere di nuovo il suo omologo e alleato Di Maio con la solita miscela di opportunità e opportunismo politico, ma questa volta non ci è riuscito, o non ha voluto, come preferite. Ed ha pubblicamente condiviso almeno l’eccezione procedurale opposta dalla sua ministra, trovando eccessivo, stravagante, improprio e altro ancora il ricorso di Bonafede ad un emendamento alla conversione in legge del decreto contro la corruzione per intervenire sulla prescrizione riguardante tutti i reati. E senza averne prima parlato in una riunione di governo, o vertice politico.

A sentenziare su chi dei due ministri, e rispettivi partiti, abbia ragione si è naturalmente affrettato quella specie di tribunale del popolo che si sente Il Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio, sostituendosi peraltro all’organo di risoluzione di simili vertenze previsto dal “contratto” di governo.

Il giornale di Travaglio ha ragione naturalmente Bonafede e torto Bongiorno, peraltro imprudente ad esporsi – come indicato in un richiamo di prima pagina – dopo avere fatto le proprie fortune di avvocato difendendo il “Divo”. Si tratta naturalmente del compianto ex presidente del Consiglio Giulio Andreotti, processato per mafia, oltre che per il delitto Pecorelli, e assolto con una macchia, diciamo così, prescrittiva: quella sempre vantata dal suo ostinato accusatore, l’allora capo della Procura di Palermo Giancarlo Caselli. Il quale è convinto di avere non perso ma vinto la sua battaglia per la prescrizione applicata in appello, e confermata in Cassazione, ai rapporti avuti da Andreotti sino alla primavera del 1980, prima che nascesse il reato di associazione mafiosa, con esponenti poi risultati mafiosi.

Con questo precedente professionale, par di capire, l’avvocato e ministro Bongiorno non avrebbe quindi titolo ad occuparsi dell’iniziativa assunta dal suo collega Bonafede. E buona notte, come fa dire Giannelli a un attore della sua vignetta di prima pagina del Corriere della Sera.

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