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Aldo Moro e Giuseppe Conte

Moro

I Graffi di Damato in occasione del quarantunesimo anniversario del sequestro di Aldo Moro

Quelle mascelle tirate di Giuseppe Conte su un corpo irrigidito, per quanto avvolto in un abito civile, e al solito elegante, anziché in una divisa magari felpata chiesta in prestito al suo vice presidente e ministro degli Interni, stracarico di mercanzie del genere, hanno dato la sensazione di un presidente del Consiglio davvero emozionato e preso dal suo ruolo davanti al monumento innalzato, e poi rinnovato, all’incrocio romano fra via Mario Fani e via Stresa.

41 ANNI FA IN VIA FANI

In quel posto la mattina del 16 marzo 1978, quarantuno anni fa, uno spietato commando delle brigate rosse assaltò l’automobile che trasportava Aldo Moro dalla vicina abitazione di via del Forte Trionfale alla Camera dei Deputati, sterminò la scorta, anche quella che viaggiava su un’altra auto, e sequestrò lo statista per uccidere pure lui dopo 55 giorni di penosa e convulsa prigionia. Durante la quale, pur dietro la facciata di una linea della fermezza subito opposta ai terroristi dal governo su pressione soprattutto dei comunisti, che lo appoggiavano dall’esterno non essendo riusciti a farne parte neppure con una crisi appena conclusa, furono compiuti numerosi ma inutili tentativi di strapparlo alla morte.

L’ULTIMO DEI TENTATIVI PER SALVARE MORO

L’ultimo di quei tentativi fu dell’allora presidente della Repubblica Giovanni Leone, predispostosi a graziare una terrorista compresa nell’elenco di tredici detenuti con i quali le brigate rosse avevano preteso di scambiare l’ostaggio. Ma i criminali, già divisi sull’epilogo tragico del sequestro, evitarono ogni imbarazzo ulteriore uccidendo Moro di prima mattina il 9 maggio, proprio nel giorno in cui Leone avrebbe dovuto firmare la grazia. Che gli costò lo stesso la carica perché dopo più di un mese egli fu costretto alle dimissioni, pur con motivazioni diverse dalla tragedia finale che aveva cercato di evitare.

LA COMMEMORAZIONE ODIERNA

Ma torniamo al volto di Giuseppe Conte davanti al monumento evocativo della strage di 41 anni fa. La sincerità di quella tensione ripresa dai fotografi è indubbia. Peraltro il presidente del Consiglio, sostenuto da un movimento la cui nascita l’allora presidente della Dc non poteva neppure immaginare, è il primo pugliese succeduto allo stesso Moro a Palazzo Chigi. E in una delle sue prime dichiarazioni dopo la nomina a capo del governo gialloverde egli tenne a indicare proprio Moro come un modello al quale avrebbe voluto ispirarsi nella sua azione di governo e, più in generale, nel suo impegno politico. Lo disse non rendendosi conto -mi permetto di aggiungere- di quanto fosse esagerata, anzi smodata, quell’ambizione. I fatti lo avrebbero poi impietosamente dimostrato, perché francamente dubito assai, avendolo peraltro conosciuto, e non solo raccontato da giornalista, che Moro avrebbe mai permesso a un suo vice presidente di correre fra i gilet gialli francesi impegnati a mettere a ferro e fuoco il loro Paese per rovesciarne il legittimo governo, e ad un altro vice presidente di alternare disinvoltamente le sue funzioni di ministro dell’Interno con quelle dei ministri regolarmente in carica degli Esteri, della Difesa, dell’Agricoltura.

IL RICORDO DI ALDO MORO

Anche in questo quarantunesimo anniversario del sequestro, e della morte fra meno di due mesi, al povero Moro è stato fatto da alcune parti politiche il torto di essere ricordato politicamente per quello che non è stato, cioè il fautore di un governo a partecipazione comunista, in anni peraltro in cui il Pci aveva ancora legami consistenti con l’Unione Sovietica, e in un mondo ancora bipolare, disegnato a Yalta dai vincitori alla conclusione della seconda guerra mondiale.

Moro era stato solo il fautore e l’artefice di una tregua parlamentare fra la sua Dc e il Pci usciti dalle urne del 1976 come i più votati, ma incapaci di realizzare una maggioranza l’una contro l’altro, e viceversa. Fu la tregua della cosiddetta “solidarietà nazionale”, durante la quale il Pci di Enrico Berlinguer accettò di astenersi e poi di appoggiare con un regolare voto di fiducia un governo interamente democristiano presieduto dal democristianissimo Giulio Andreotti.

Fu una tregua finalizzata, nei progetti di Moro, alla possibilità che ciascuno dei due partiti trovasse poi i numeri elettorali e /o parlamentari necessari a ripristinare la dialettica normale di una maggioranza e di un’opposizione. Quando Moro fu sequestrato già si avvertivano nel Psi, passato dalla guida di Francesco De Martino a quella dell’autonomista Bettino Craxi, tendenze a riprendere una piena libertà d’azione, sino a ripristinare in forme nuove la collaborazione organica con la Dc avviata negli anni Sessanta proprio da Moro col centro-sinistra.

Mi è capitato di sentir dire al Tg 2, in occasione appunto del quarantunesimo anniversario del sequestro, che Moro stava realizzando “il compromesso storico”, cioè la proposta ambiziosa e piena di governo avanzata dal Pci, non certo -credo- per sostenerlo dall’esterno. Eppure si dice che il direttore di questo telegiornale di Stato sia uno storico. Siamo messi bene.

 

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