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Auguri ad Arnaldo Forlani

Arnaldo Forlani

I Graffi di Damato. I 95 anni di Arnaldo Forlani, l’ultimo vero segretario della Dc

In questo mondo politico che ormai si distingue anche per la sua maleducazione nessuno si è ricordato dei 95 anni compiuti ieri da Arnaldo Forlani. Che evidentemente per i trascorsi coinvolgimenti nel finanziamento irregolare dei partiti, pur avendo scontato la sua pena, ha perduto il diritto alla memoria.

Solo navigando per internet si è trovato un ricordo riservatogli dall’ex ministro democristiano Calogero Mannino, più volte assolto sia dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa sia dall’accusa di avere addirittura preteso trattative con la mafia stragista che lo aveva minacciato di morte. “Sua fermezza e lucidità”, egli ha definito non a torto l’ultimo segretario della Dc, come io ritengo Forlani, avendo il compianto Mino Martinazzoli preferito invece chiudere il partito dopo averne ricevuto la guida. E lo chiuse addirittura “con un telegramma”, come gli rimproverò sarcasticamente un avversario dello scudocrociato che voleva raccoglierne l’eredità elettorale nel Nord: l’allora capo della Lega Umberto Bossi.

Alla fine degli anni Sessanta, quando il giovanissimo Forlani divenne per la prima volta segretario della Dc mi colpirono più le differenze che le affinità tra lui e il capo della sua corrente. Che era Amintore Fanfani. E ne scrissi sostenendo che il cuore di Forlani poteva anche essere fanfaniano, ma il cervello no. Il cervello somigliava a quello dell’altro “cavallo di razza” della Dc, secondo una celebre definizione di Carlo Donat-Cattin. Mi riferisco naturalmente ad Aldo Moro.

Ne ebbi conferma autorevolissima già il giorno dopo, quando accettai un invito a colazione proprio da Fanfani, presidente del Senato, che mi spiegò di non avere bisogno di un intermediario per mettersi d’accordo con Moro. E infatti quasi tre anni dopo, nel 1973, sempre da presidente del Senato, Fanfani convocò alla vigilia di un congresso nazionale del partito una riunione fra i capicorrente della Dc per decidere la rimozione di Forlani dalla segreteria del partito e di Giulio Andreotti da Palazzo Chigi. Così Forlani pagò anche il buon senso dimostrato nelle elezioni presidenziali della fine del 1971, quando dopo una lunga serie infruttuosa di votazioni su Fanfani candidato della Dc al Quirinale egli aveva contestato il veto che lo stesso Fanfani aveva praticamente posto contro una candidatura di Moro, già segretario del partito, più volte presidente del Consiglio e ministro degli Esteri allora in carica. Ma al Quirinale finì ugualmente un altro democristiano: Giovanni Leone. Cui peraltro non sarebbe stato concesso di portare a termine regolarmente il mandato presidenziale per avere osato di cercare di salvare Moro nel 1978 dalle mani dei brigatisti rossi, che l’avevano rapito fra il sangue della scorta decimata reclamando lo scambio con 13 detenuti.

Tanto Forlani era stato prudente nella ricerca di un accordo sulla legge istitutiva del divorzio che evitasse il referendum promosso dai cattolici più intransigenti, tanto Fanfani succedendogli spinse su quel referendum perdendolo, e segnando l’inizio di un lungo declino della Democrazia Cristiana. Che alcuni ritennero di evitare accordandosi col Pci, incapace però di reggere alla prova per più di un anno e mezzo, ritirandosene e tornando a sfidare la Dc dall’opposizione. Solo Forlani, tra le sofferenze di Ciriaco De Mita, seppe rispondere con la dovuta fermezza collaborando a Palazzo Chigi col socialista più temuto dal Pci: Bettino Craxi. Quelli, sì, erano uomini.

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