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Che cosa si sono detti Draghi e Mattarella sul Quirinale

Governo Draghi

I Graffi di Damato

Se fosse vero, e non solo verosimile, il retroscena col quale apre oggi giustamente Il Giornale, Mario Draghi avrebbe fatto la mossa dello scacco matto sulla scacchiera del Quirinale precedendo il troppo titubante segretario del Pd Enrico Letta, frenato dalle tante ambizioni più o meno nascoste dei suoi colleghi di partito. In particolare, egli ha proposto a Mattarella, in una cena che risalirebbe a giovedì scorso, la rielezione al Quirinale ricevendone come risposta “un sorriso”. Che è già più, e meglio, di un no che sorprendentemente avrebbe preferito il direttore dello stesso Giornale: il mio carissimo amico Augusto Minzolini. Il quale ha scritto di una “staffetta irrituale” implicita nella proposta-offerta di Draghi, disposto a rimanere a Palazzo Chigi, con Mattarella confermato al Quirinale, sino alla scadenza ordinaria della legislatura, nel 2023, salvo succedergli se e quando il presidente rieletto dovesse dimettersi, come fece Giorgio Napolitano nel 2015 dopo la conferma del 2013.

A leggere il buon Minzolini, peraltro espertissimo di retroscena perché conoscitore e frequentatore dei palazzi della politica come pochi altri, prevalentemente morti come il nostro comune amico Guido Quaranta, quella implicita o esplicita di Draghi a Mattarella sarebbe una specie di proposta indecente, dal titolo che vi propongo di un celebre film drammatico del 1993. In cui la bellissima Dami More, col consenso del marito in gravi difficoltà economiche, cede alla corte salvifica del supermiliardario Robert Redford.

Capisco l’avversione del Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, che proprio oggi se la prende in prima pagina con lo scenario di un Draghi protagonista a lungo della politica italiana adoperando una intervista del politologo Marco Revelli, secondo cui il “premierato assoluto” dell’attuale capo del governo sarebbe paragonabile alla “restaurazione” decisa “al congresso di Vienna” in un Europa sconvolta a lungo da Napoleone. Ma chi sarebbe il Napoleone italiano dei nostri mesi o anni scorsi? Giuseppe Conte con i suoi due governi dal segno politico opposto succedutisi fra il 2018 e le prime settimane del 2021? Via, siamo seri.

Capisco, dicevo, l’avversione del Fatto Quotidiano ad uno scenario in cui Draghi rimarrebbe a Palazzo Chigi sino al 2023 per succedere poi a Mattarella, nel prossimo Parlamento, e garantire dal Quirinale la prosecuzione della sua azione di risanamento e riforma dell’Italia con altri premier da lui nominati, sempre che i risultati elettorali naturalmente glielo permettessero, perché il o i suoi successori a Palazzo Chigi dovrebbero pur avere la fiducia delle Camere. Ma perché Minzolini, alla meritata guida del quotidiano fondato nel 1974 da Indro Montanelli e ora della famiglia Berlusconi, dovrebbe strapparsi i capelli, che peraltro non ha consentendogli di esporre una simpaticissima e lucidissima testa calva?

Irrituale per irrituale, come Augusto ha definito una eventuale staffetta al Quirinale fra un paio d’anni fra Mattarella e Draghi, mi e gli chiedo come si possa definire, se non irrituale anch’essa, quanto meno, l’elezione di un successore a Mattarella a febbraio prossimo da parte di Camere ampiamente delegittimate dalla riforma grillina che ne ha ridotto la consistenza nella loro prossima edizione. Ma delegittimate anche dai risultati di tutte le elezioni intermedie, chiamiamole così, svoltesi dopo il 2018, in cui i voti dei grillini si sono praticamente dimezzati e se la battono, per il primato in classifica, tre partiti attorno al 20 per cento dei voti. Che sono il Pd, la Lega e i fratelli d’Italia.

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