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Che cosa succede fra Di Maio, Conte e Crimi?

5 Stelle Di Maio Conte

Di Maio dà al Pd un altro appuntamento: l’anno prossimo nei Comuni

Per quanto alle prese col suo governo con temi avvertiti più direttamente dalla gente comune come la ripresa dei contagi virali, anziché dell’economia, e la scommessa da brividi sulla riapertura delle scuole, Giuseppe Conte lavora un po’ in sordina. La scena gli è stata rubata da altri.

Prima c’è stato Mario Draghi con quel discorso a Rimini, che ha fatto crescere in giro la voglia di vederlo prima o poi, ma più prima che poi, a Palazzo Chigi per la maggiore padronanza che ha dei temi economici e sociali sul tappeto e dei necessari supporti internazionali.

Ora è arrivato il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Che scavalcando il reggente del proprio movimento Vito Crimi, oltre al presidente del Consiglio, ha preso a gestire in proprio il rapporto col principale alleato di governo, cioè il Pd. Al quale ha appena proposto, in una intervista al Fatto Quotidiano giustamente lanciata su tutta la prima pagina, “un tavolo nazionale per ragionare delle elezioni comunali del 2021”. Che riguarderanno città, fra le altre, come Torino, Milano, Roma e Napoli.

Il problema – ha spiegato Di Maio cercando implicitamente di scusarsi col segretario del Pd per le delusioni che gli ha dovuto procurare nella partita troppo vicina delle elezioni regionali del 20 settembre – è di evitare che si affrontino troppo tardi i nodi dei Comuni. Dove i due partiti potranno avvicinarsi e accordarsi più che nelle regioni ormai destinate a tormentare Zingaretti: regioni come le Marche e la Puglia, dove Di Maio non solo non è riuscito a convincere gli amici locali ad accordarsi col Pd che vi aspirava per meglio fronteggiare l’avanzata del centrodestra, ma sarà costretto nelle prossime settimane a partecipare direttamente alla campagna elettorale per sostenere i candidati 5 Stelle nella loro corsa solitaria, e dannosa per gli alleati di governo.

Così le elezioni amministrative dell’anno prossimo sono diventate un altro passaggio o un’altra scadenza in attesa della quale il Pd di fatto nella tattica o persino nella strategia di Di Maio potrebbe trovarsi nella condizione di attendere, sopportare e quant’altro. Questi grillini in “fase di transizione” per “decidere cose fare da grandi”, come ha detto il loro ex capo ma deciso a riprenderne la guida o comunque ad esercitarla di fatto, sono bravissimi a tenere appesi gli alleati di turno o il principale alleato di turno – la Lega prima e il Pd adesso – ai propri problemi interni di identità e di potere. Essi sono forti, nel rapporto col partito di Zingaretti, del carattere riconosciuto come “insostituibile”, cioè obbligato, dell’alleanza stretta l’anno scorso per evitare elezioni anticipate a vantaggio di Salvini.

Sul carattere insostituibile e – ripeto – obbligato dell’alleanza con i grillini è appena tornato a parlare, o pontificare, dalle torri di emittenza de la 7 Goffredo Bettini con l’invito a non scambiarlo più per un semplice “consigliere” di Zingaretti. L’uomo insomma si sente forte abbastanza non per consigliare ma persino ordinare, anche se nel Pd cresce la tentazione di votare no al referendum sul taglio dei seggi parlamentari anche per cercare di ridimensionare i grillini, che ne hanno fatto una bandiera. Gli ultimi no sono quelli annunciati al Corriere della Sera da Virginio Rognoni e da Anna Finocchiaro a Repubblica. Dove un pezzo da novanta in dottrina e politica come Gustavo Zagrebelsky ha invece fatto dichiaratamente e spiritosamente l’asino di Buridano: tanto indeciso da non mangiare, cioè da non votare. Sarebbe comunque un sì in meno.

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