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Che tristezza la statua di Montanelli imbrattata

Montanelli

I Graffi di Damato sulla statua di Indro Montanelli imbrattata di rosso a Milano

Che pena questo curioso giornalismo italiano. Fatta eccezione per il Corriere della Sera — che così ha finito di pagare il debito che aveva col suo più illustre giornalista, di cui nel 1977, trovandoselo da tre anni concorrente col suo Giornale, aveva ignobilmente omesso il nome nel titolo di prima pagina sull’attentato terroristico in cui aveva rischiato la vita — nessun quotidiano italiano ha dato in prima pagina notizia e foto della statua di Indro Montanelli imbrattata di rosso. “Razzista e stupratore”, hanno certificato i nuovi monatti di Milano.

Figlio del suo tempo, arruolatosi volontario a 26 anni per la guerra di Etiopia come sottotenente, dopo avere cercato inutilmente di seguirla come inviato per un’agenzia di stampa, Montanelli fece ciò che in quelle terre e in quegli anni facevano tutti gli ufficiali, nel rispetto dei costumi e delle leggi del posto. Egli acquistò per 350 lire, contro le 500 chiestegli originariamente dal padre, una ragazza dai 12 ai 14 anni – bellissima”, raccontò lui stesso – sposandola e facendoci anche un figlio. Che dopo una ventina d’anni, in un viaggio in Africa, Montanelli scoprì che fosse stato chiamato Indro dalla mamma, nel frattempo rispostasi con un connazionale.

Questa storia del figlio, a dire la verità, è stata sempre molto controversa nelle storie che si sono scritte di Montanelli. Ma ebbi la sensazione che fosse vera un giorno in cui, accompagnandolo a Roma a casa della mamma e conversando delle vicende del nostro Giornale, dove un anziano collega si era doluto di un mio intervento su una collaboratrice un po’ invadente che gli stava molto a cuore, Montanelli mi fece pressappoco questo discorso: “Franceschino, io ho avuto solo un figlio, che deve avere all’incirca la tua età, e in questa veste ti chiedo di comprendere le debolezze degli altri, perché – credimi – ne abbiamo un po’ tutti”.

Fra i silenzi riscontrati sulle prime pagine, il più assordante – persino più del suo ex Giornale, ora totalmente di Berlusconi – mi è francamente apparso quello di Repubblica. Dove mi sarei aspettato non dico un titolo, un editoriale apposito ma un inciso, un accenno, uno di quei “post” frequentemente usati nell’appuntamento domenicale del fondatore Eugenio Scalfari. Che con quei “97 anni che mi porto in tasca camminando” – ha scritto lui stesso parlando però d’altro- non ha ritenuto di spendere una parola, dico una, in difesa del giornalista e scrittore che è stato con lui tra i protagonisti del giornalismo italiano: spesso concorrenti e avversari diretti, come negli anni nei quali Montanelli aveva creato un quotidiano per contrastare la prospettiva di un’intesa di governo fra la Dc e il Pci e lui, Scalfari, ne fece poi un altro apposta – la Repubblica, appunto – per sostenerla, ma senza mai attaccarsi e tanto meno offendersi sul piano personale.

In questa  domenica del Corpus Domini Scalfari ha preferito partecipare solo e del tutto, a suo modo, al “gran ballo di Conte a Villa Pamphili” nobilitando i suoi Stati Generali dell’Economia, e riproponendoci  il presidente del Consiglio come il migliore che ci potesse capitare in questi tempi così difficili, dopo avere smesso di essere l’anno scorso “il burattino di Matteo Salvini”, ancor più del grillino Luigi Di Maio, l’altro vice presidente del Consiglio del governo gialloverde. Sì, “ogni tanto Conte inciampa, zoppica, scivola, fa marcia indietro”, ma – ha assicurato don Eugenio – per fortuna si tratta di incidenti che vengono superati e spesso lo portano leggermente più avanti dei risultati raggiunti”.

 

TUTTI I GRAFFI DI DAMATO 

 

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