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Chi sottovaluta il logoramento di Draghi

draghi chiude al bis Nadef

I Graffi di Damato

“Draghi rischia il logoramento”, titolava ieri Repubblica richiamando in prima pagina un articolo di “retroscena” sulla situazione politica e, più in particolare, sulle condizioni in cui si trova il presidente del Consiglio fra annunci, minacce, manovre di crisi prevalentemente attribuite alle tensioni che percorrono il MoVimento 5 Stelle dopo la scissione di Luigi Di Maio, ma onestamente evidenti anche fra i leghisti, ormai superati nel centrodestra dai fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Che guadagna voti soprattutto ai danni del partito di Matteo Salvini.

Ritengo personalmente ottimistico, e anche troppo, quel titolo o titolino di Repubblica perché Mario Draghi non rischia ma è già in logoramento, pur avendo un’autorevolezza personale che gli ha permesso e gli permette ancora di essere rispettato in tutti gli incontri internazionali ai quali partecipa, o in tutte le missioni che svolge all’estero. Dove Giuseppe Conte non se lo ricorda ormai più nessuno, per quanto lui e i suoi amici si vantino di avere lasciato il segno con i finanziamenti europei al piano di ripresa e resilienza. Che tuttavia egli non riuscì o non fece in tempo a tradurre in un progetto concreto. E quando vi provvide Draghi e qualcuno alla Commissione Europea storse il naso su alcuni particolari, ritenuti non adeguatamente contabilizzati e credibili, bastò che il nuovo presidente del Consiglio dicesse “garantisco io” perché tutto passasse. Ve lo immaginate un “garantisco io” di Conte? Via, cerchiamo di essere seri.

Per quanto potrà ancora durare tuttavia di fronte agli sviluppi caotici della situazione politica italiana il mantenimento del prestigio personale di Draghi sul piano internazionale, guadagnatosi soprattutto con la sua esperienza a Francoforte presiedendo la Banca Centrale Europea e salvando l’euro da una tempesta che lo stava travolgendo? Questa è la domanda che dovrebbero porsi i veri estimatori del presidente del Consiglio, non l’auspicio ch’egli riesca ancora a tenere a freno i grillini. O che, in caso contrario, riesca a formare un altro governo -il Draghi bis- senza di loro, ormai non più determinanti numericamente per la formazione di una maggioranza in Parlamento, e portare la legislatura al suo compimento ordinario, a marzo dell’anno prossimo. E con elezioni a maggio, usando sino all’ultimo secondo il tempo a disposizione per mandare concretamente gli italiani alle urne dopo lo scioglimento delle Camere scadute.

Più che governare davvero l’Italia, Draghi collezionerebbe con il suo bis, o con l’attuale governo miracolosamente sottratto alla crisi perseguita dai soci infidi della sua maggioranza, solo incidenti, infortuni, compromessi destinati a farne un politico uguale a tanti altri comparsi e scomparsi nella storia della prima, seconda, terza Repubblica. Rischierebbe la fine del povero Giovanni Goria, senza neppure la barba che consentì, da sola, a quell’ex ministro del Tesoro e presidente del Consiglio democristiano di essere rappresentato agli italiani da Giorgio Forattini nelle sue vignette.

Un Draghi bis o un Draghi costretto alla macina di una campagna elettorale di un anno sarebbe davvero la fine dell’esperienza politica del presidente del Consiglio: altro che la prenotazione di un più solido governo nella nuova legislatura. Chi sostiene il contrario o è uno sprovveduto, incapace di capire, per esempio, il discredito che gli deriverebbe dalle nomine negli enti pubblici già richiesto a Draghi dal Pd per non lasciarle agli equilibri politici della prossima legislatura, o è un suo avversario travestito da amico. Che pensa anche di cambiare per l’ennesima volta la legge elettorale a pochi mesi dal voto, in difformità peraltro dalle regole o dai canoni europei. Ma quella in vigore è pessima, ha appena confermato al Foglio il segretario piddino Enrico Letta. Beh, bisognava pensarci prima.

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