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Come affrontano Letta e Meloni la giornata di vigilia del voto?

Sondaggi Letta Meloni

I Graffi di Damato

In attesa ormai solo dei risultati delle elezioni di domani, nel silenzio finalmente caduto nelle piazze e nei salotti televisivi che ne sono stati un po’ le succursali in una estate singolarissima, Giorgia Meloni incrocia le dita ed Enrico Letta i piedi.

La Meloni sente davvero a portata di mano la vittoria, liberata da altri rischi di gaffe di quello che -pensate un pò- si era offerto in Italia e all’estero come garante dell’europeismo, atlantismo, antiputinismo e quant’altro del suo centrodestra a trazione femminile. Lui, arrivato a sostenere, anzi a rivelare come in uno scoop che il suo amico di Mosca non voleva poi fare del male all’Ucraina invadendola a febbraio. Voleva solo sostituire Zelensky e i ministri di Kiev con “persone per bene”. Tutti a chiedersi, sgomenti, a destra e a sinistra, a ovest e ad est di Arcore, perché mai il Cavaliere non abbia più amici in grado di dargli buoni consigli. Nessuno che si ricordi dell’abitudine di Berlusconi di circondarsi più di cortigiani che di amici veri.

Con quell’uscita francamente incredibile sulle “persone per bene” con le quali si poteva o doveva sostituire il governo ucraino nell’operazione di “denazificazione” proclamata a Mosca viene quasi la voglia di dire che per fortuna il centrodestra, sfumata anche la trazione leghista, è finito nelle mani della Meloni.

E i piedi di Enrico Letta? Sono quelli che, a leggere certe cronache del comizio di chiusura nella piazza romana del Popolo, già traballavano sul palco agli occhi degli amici di partito pronti a sfilargli la segreteria, come nel 2014 gli avevano sfilato, o avevano permesso a Matteo Renzi di sfilargli Palazzo Chigi. Magari, questa volta gli concederanno l’onore -o disonore, secondo le preferenze- di un congresso, ordinario a marzo o anticipato di qualche mese, nella previsione assai diffusa di una sconfitta in quella che poi è stata una corsa non alla vittoria, pur invocata a parole, ma ad un contenuto insuccesso.

Per essere sincero, tuttavia, il segretario del Pd non mi sembra quel mezzo o intero deficiente rappresentato da critici ed avversari. Egli paga gli effetti, prima ancora dei suoi errori, dell’eredità lasciatagli da Nicola Zingaretti, fuggendo praticamente dal Nazareno, con l’inopinata promozione di Giuseppe Conte al “punto più alto di riferimento dei progressisti”. Al quale giustamente, anche a costo di compromettere la cosiddetta competitività col centrodestra di Giorgia Meloni, lui non ha voluto perdonare la rottura con Mario Draghi. Nè ha voluto mettersi pavidamente in fila per riagganciare il professore, avvocato eccetera eccetera dopo le elezioni, dalle quali sembra che, riesumando al Sud la buonanima di Achille Lauro, il presidente pentastellato stia uscendo un pò meglio di quando vi è entrato con la spinta verso lo scioglimento anticipato delle Camere. Non gli sono tremati né polsi né palpebre all’annuncio della indisponibilità di Conte a riprendere rapporti col Pd prima che i vari Goffredo Bettini, Andrea Orlando, forse persino Dario Franceschini non ne cambino “il gruppo dirigente”, come se costoro peraltro non ne avessero o non ne facessero parte.

Ospite abbastanza tranquillo ieri sera di Enrico Mentana,, seduto sulla sua poltroncina non come su un trespolo, Letta ha voluto difendere Draghi dagli assalti e dai disprezzi di Conte, che non ne ha mai digerito l’arrivo a Palazzo Chigi, al suo posto. Egli aveva fatto solo finta di esservisi rassegnato improvvisando quel banco in piazza, fra lo stesso Palazzo Chigi e Montecitorio, per un gesto di disponibilità a sostenerne il governo anomalo, da salute pubblica, chiesto dal presidente della Repubblica nella impossibilità, in quel momento, di sciogliere le Camere con una pandemia ancora virulenta. Di Draghi -ha ammonito Enrico Letta, come aveva fatto qualche giorno prima il vecchio Henry Kissinger parlandone a New York a livello internazionale- è prematuro pensare che sia davvero un uomo uscito di scena.

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