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Come ha esordito Conte in Parlamento

Conte Parlamento

I Graffi di Damato sul discorso al Parlamento del premier Giuseppe Conte mentre in piazza davanti alla Camera protestava la destra guidata da Salvini e Meloni

Più che da un cambio di maggioranza, col Pd e Leu al posto dei leghisti, nella presentazione del suo secondo governo al Parlamento Giuseppe Conte è sembrato reduce da un corso accelerato e ben riuscito di oratoria. Con pause sconosciute nella sua prima esperienza di presidente del Consiglio egli ha saputo raccogliere e rilanciare tutte, ma proprio tutte le occasioni di polemica e di scontro con gli ex alleati esasperandone le reazioni sin quasi alla rissa. La sua ossessione è apparsa quella di dimostrare all’aula di Montecitorio, e al pubblico che lo seguiva per televisione da casa, che davvero era finito l’anno e più di governo gialloverde e che le “poltrone imbullonate” rinfacciategli dai leghisti nella stessa aula e in piazza, davanti alla Camera, erano quelle cui essi ambivano chiedendo le elezioni anticipate per capitalizzare il successo conseguito nelle votazioni europee del 26 maggio scorso. È un  ragionamento, questo, che ha mandato in visibilio la sinistra perché riflette l’antisalvinismo impostole dai “pieni poteri” imprudentemente reclamati, a dire il vero,  dall’ex ministro dell’Interno nel chiedere appunto le elezioni anticipate.

L’OPPOSIZIONE DI DESTRA SENZA FORZA ITALIA

La “sobrietà”, la “pacificazione” ed altre parole magiche, come le avrebbe chiamate la buonanima di Amintore Fanfani, spese da Conte nei suoi interventi di apertura del dibattito e di replica hanno riguardato solo il modo di essere e di fare della nuova maggioranza, dopo le tensioni permanenti della vecchia, non i rapporti con l’opposizione, ora solo di destra. Non si può infatti parlare di centrodestra, perché quella di Silvio Berlusconi affidata ai parlamentari di Forza Italia — diciamo la verità — è un’opposizione più di facciata che altro: cosa della quale Conte deve fingere di non accorgersi, e di non compiacersi, per non aggiungere un nuovo contenzioso a quelli sotto traccia esistenti con i grillini, che pure gli fanno in pubblico i salamelecchi da quando Beppe Grillo in persona ne ha voluto la conferma a Palazzo Chigi e lo ha “elevato” quasi al proprio livello, un gradino sotto Dio col quale il comico genovese s’immagina collegato dal suo blog personale quando sente il bisogno di intervenire nelle vicende politiche e di dettare la linea ai sottoposti.

Sarebbe oggettivamente troppo per Grillo e per il suo “popolo” difeso da Conte ingoiare, dopo l’accordo di governo con l’odiato Pd, la disponibilità dell’ancora più odiato Berlusconi ad una opposizione “ferma ma costruttiva, repubblicana, responsabile” e quant’altro, trasformabile in appoggio sul terreno delle riforme della Costituzione e della legge elettorale. Così  fu per qualche tempo col governo di Matteo Renzi, sino a quando i due non ruppero sulla elezione di Sergio Mattarella al Quirinale per la successione a Giorgio Napolitano.

Alla piazza della protesta della destra si è paradossalmente aggiunto, con gli stessi argomenti e le stessa aspirazione elettorale, l’editore virtuale, diciamo così, della Repubblica di carta, Carlo De Benedetti, standosene seduto nel salotto televisivo appena riaperto da Lilli Gruber su La 7 di Urbano Cairo, l’editore a sua volta sognato da molte parti nei panni di un Berlusconi più commestibile.

LA MANCATA SFIDA ELETTORALE PER VINCERE DAVVERO SULLA DESTRA SOVRANISTA

Anche De Benedetti ha dato del “trasformista” a Conte accusando i suoi nuovi soci di maggioranza di non aver capito che la destra sovranista di Salvini e della Giorgia Meloni sarebbe stata più linearmente, più efficacemente e più stabilmente sconfitta proprio raccogliendone la sfida elettorale. Che pertanto sarebbe stata per l’ex ministro dell’Interno un’autorete maggiore della stessa crisi agostana, sempre che naturalmente la sinistra avesse saputo e voluto attrezzarsi a dovere, anziché scegliere la strada che ha invece imboccato seguendo a sorpresa l’imprevedibile Matteo Renzi: tanto imprevedibile, peraltro, che non ha smesso di lavorare — ha raccontato De Benedetti, cui certamente non mancano buone informazioni — per uscire dal Pd e mettersi in proprio.

RENZI IN PROPRIO A SINISTRA?

La conferma di una simile prospettiva, destinata quanto meno a complicare la situazione politica,  si trova in una intervista al Corriere della Sera dell’insospettabile capogruppo renziano del Senato Andrea Marcucci. Il quale, rispondendo ad una domanda, appunto, sull’intenzione attribuita a Renzi di mettersi in proprio, costituendo un gruppo autonomo alla Camera e rimanendo per un po’ in quello del Pd al Senato perché il regolamento l’obbligherebbe a confluire nel gruppo misto, ha detto che “l’importante è che ci sia il sostegno a questo governo”. Il solo inconveniente per Conte sarebbe quello di dover avere un interlocutore in più sulla sua strada, senza limitarsi a parlare per il Pd col segretario Zingaretti o col capo della delegazione piddina Dario Franceschini.

Con questi chiari di luna, diciamo così, è quanto meno prematura la prospettiva “di legislatura” assegnatasi da Conte presentando al Parlamento il suo secondo governo, e risparmiando agli italiani, bontà sua, la prenotazione anche della legislatura prossima, con tutto quel programma che ha esposto per la “Smart Nation”, come l’hanno definita i suoi ammiratori.

 

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