I Graffi di Damato
Ci siamo tanto abituati alla guerra in Ucraina, secondo Putin neppure cominciata davvero, che i giornali ormai ne pubblicano le foto -se le pubblicano- all’interno, o nelle parti basse delle loro prime pagine, mettendo in alto quelle delle fiamme e del fumo a Roma. Dove il nuovo sindaco ed ex ministro Roberto Gualtieri già rischia di finire come Nerone nelle vignette.
Scrive oggi giustamente il direttore Massimo Giannini sulla Stampa contro l’assuefazione “anche a questo: l’orrore del Donbass, i missili che piovono, i civili che muoiono. Tutto è già quasi routine, almeno per la nostra esistenza materiale. Del conflitto russo-ucraino valutiamo -ha scritto ancora Giannini- il costo economico più che il conto delle vittime”, per cui ci chiediamo “quanto rincara la bolletta del gas, il pieno di benzina, la spesa al supermercato, quando scatteranno le restrizioni alle forniture di energia, di aria fredda o di acqua calda, dove arriverà l’inflazione, la più iniqua di tutte le tasse”. E magari qualcuno -mi permetto di aggiungere- si chiederà, accodandosi ai putiniani d’Italia, se davvero ci conviene allungare questa guerra aiutando la resistenza degli ucraini, anziché convincerli con le buone alla resa, in concorrenza con le cattive del Cremlino.
Eppure lo stesso Giannini, pur dirigendo un giornale preso di mira dall’’ambasciatore russo in Italia che lo denunciò alla Procura di Roma all’’inizio del conflitto per falso e contorni, si è lasciato scappare una “Europa risparmiata (per ora) dai cannoni di Putin”, ma che “rischia di trasformarsi in grande polveriera sociale”, per cui “i governi dovranno farsene carico”: compreso quello italiano di Mario Draghi, dal quale non a caso i grillini vorrebbero uscire per non perdere anche quei pochi voti che sono rimasti al loro movimento.
Su quell’”Europa risparmiata”, sia pure “per ora”, mi permetterei di dissentire perché l’Ucraina ne è compresa, come dovrebbero dimostrare i pellegrinaggi dei suoi leader da Zelensky, a Kiev, e le procedure di adesione all’Unione avviate con tanto clamore nei giorni scorsi. Se non si ha vera cognizione dell’Ucraina europea non si può coerentemente difendere la posizione assunta appunto in Europa, a cominciare dal governo Draghi, di aiutare gli aggrediti sino a quando sarà necessario e di impedire a Putin di vincere la sua sporca guerra, secondo lui, neppure cominciata davvero, ripeto. E si potrebbe, al contrario, condividere se non le proteste dei putiniani d’Italia, i malumori e le paure di Giuseppe Conte tentato dalla crisi. E ormai frenato solo dalla ricerca del momento più opportuno per soddisfare le attese del “gregge” di cui è presidente, per ripetere l’immagine usata dal premier inglese Boris Johnson rinunciando alla guida del suo partito conservatore e predisponendosi a lasciare anche la guida del governo.
Più esita ad arrendersi anche lui al gregge pentastellato, non dimettendosi però da presidente del movimento, come ha fatto l’ancora premier britannico, ma facendo uscire i “suoi” ministri e provocando le dimissioni di Draghi, più Conte rischia di essere degradato a “baluba” da Travaglio e simili, insofferenti dei ritardi di una crisi presuntivamente, molto presuntivamente, rigeneratrice dello spirito originario di un movimento pur dissoltosi ormai per strada, o ridotto a polvere di stelle: un baluba al quale basterebbe che Draghi regalasse “il lecca-lecca e lo zucchero filato”, ha concluso il suo solito editoriale sprezzante il direttore del Fatto Quotidiano.