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Conte e Salvini, quando il populismo resta senza popolo

Salvini Conte

I Graffi di Damato

Rimosso con un fantomatico carro attrezzi della Protezione Civile il carro funebre del referendum, immaginando i cinque sui temi della giustizia accomunati a torto o a ragione in una sola cassa, del turno elettorale di domenica 12 giugno ci rimangono i risultati dei partiti misuratisi nel rinnovo delle amministrazioni comunali. Per una volta possiamo fidarci anche dei fotomontaggi e dei titoli del Fatto Quotidiano, uguale -pensate un pò- alla sintesi di Repubblica, che accomuna nella sconfitta, come dato essenziale o finale di almeno il primo turno del voto comunale, Matteo Salvini nel centrodestra e Giuseppe Conte nel centrosinistra. O “campo largo”, come preferisce ancora chiamarlo il segretario del Pd Enrico Letta con antica astuzia democristiana, cioè segretamente confortato dalle perdite che subisce il troppo ingombrante alleato.

“Spopolati”, ha definito Salvini e Conte con la solita efficacia verbale il manifesto. Dove debbono avere riso di cuore scrivendone, diversamente dal Fatto Quotidiano, dove Conte, pur ridotto così male per dolorosa ammissione, viene ancora considerato il meglio che sia rimasto del MoVimento 5 Stelle, cui il giornale di Travaglio ha cercato di fare da scuola, pur non nascondendo le troppe delusioni via via riservategli da Beppe Grillo in persona. Che ora nella “sua” Genova si deve accontentare di meno del 5 per cento dei voti, dal 18 degli anni migliori. E’ un po’ come il 6 per cento della Lega rimasto a Salvini a Verona.

Conte, quindi, questo “avvocato del popolo” già iscritto all’anagrafe degli uccisi da Travaglio l’anno scorso, alla fine pasticciata e ritardata del suo secondo governo; questo emulo del conte Camillo Benso di Cavour, ora appeso anche al giudizio di una sezione civile del tribunale di Napoli per liti un pò da condominio partitico, entra sfiancato nella fase conclusiva di questa legislatura, come il suo ex e ritrovato alleato Salvini. Che pure nel 2019 egli aveva ritenuto di avere liquidato per sempre dalla sua strada processandolo in diretta nell’aula del Senato come un incontinente della prepotenza, alla ricerca dei “pieni poteri” in un turno anticipato di elezioni politiche che Matteo Renzi, ancora per pochi giorni nel Pd, riuscì a sventare buttando via tutti i pop corn che gli erano rimasti godendosi dall’opposizione lo spettacolo del governo gialloverde.

Per Mario Draghi la fine della legislatura è “una grana”, come giustamente osserva Libero sottolineando la “incontrollabililità” dei “grillini agonizzanti”. Ma è ancor più una grana proprio per Conte, specie se dovesse cedere al consiglio appena formulatogli televisivamente dal suo estimatore Travaglio di portar via il partito dal governo prima delle elezioni. Come nel centrodestra Giorgia Meloni, ormai prevalente su tutti gli alleati nei sondaggi e anche nelle urne, suggerisce a Salvini e a Berlusconi.

A proposito delle grane di Draghi, che è chiamato in questi giorni con un bel po’ di viaggi ad affrontare quelle di natura internazionale, le più pericolose anche per i riflessi sulla situazione economica del Paese, può sembrare paradossale -e un po’lo è davvero- l’aiuto giuntogli su questo terreno dai risultati elettorali di domenica. Essi hanno infatti penalizzato i due partiti che nella maggioranza gli hanno procurato i maggiori problemi di politica estera, con particolare riferimento alla prima emergenza del momento che è la guerra in Ucraina. Sono i partiti appunto di Salvini e di Conte.

Per fortuna -lasciatemelo dire pur con tutto il rispetto dovuto ad una figura come quella del Pontefice di Santa Romana Chiesa- le urne si sono richiuse in tempo prima che Papa Francesco si lasciasse andare a quel soccorso -pure lui- a Putin, e in fondo a quel “chierichetto” del Cremlino giù indicato nel Patriarca di Mosca Cirillo, tornando a lamentare “le provocazioni” della Nato alla Russia.

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