Elio Schiavo nominato all'unanimità, succede a Massimo Mancini Il consiglio di amministrazione di Polo Strategico…
Cosa sta succedendo dopo gli scazzi fra Conte e Salvini e le dimissioni del premier
Il punto del notista politica Francesco Damato
Per attenersi all’immagine pertinente proposta da Emilio Giannelli con la sua vignetta sulla prima pagina del Corriere della Sera il presidente uscente e – come vedremo – difficilmente rientrante del Consiglio Giuseppe Conte ha usato l’aula del Senato, col discorso di introduzione all’apertura finalmente formale di una crisi in corso sui giornali almeno da un mese, per togliersi dalla scarpa i classici sassolini. Ma si è tolto solo quelli messigli da Matteo Salvini, cui ha fatto un processo da “avvocato del popolo”, secondo la sua stessa originaria definizione, ma inteso come pubblico ministero: un processo in cui “il popolo” sarebbe la parte lesa.
L’imputato leghista ha dovuto subire l’attacco, standogli seduto accanto ancora come vice e ministro dell’Interno, opponendogli solo o prevalentemente gesti di dissenso, prima di spostarsi sui banchi dei parlamentari del Carroccio e di parlare a propria difesa, peraltro interrotto ostinatamente dai senatori del Pd insofferenti della sua sopravvivenza fisica all’attacco di Conte. Che essi avevano applaudito nei passaggi più significativi, come quello sulla “vicenda russa da chiarire” per i dubbi non risolti sulla ricerca di affari a “Moscopoli”, come la chiama la Repubblica di carta, da parte del leghista Gianluca Savoini.
Conte ha invece trattenuto nella scarpa, o nell’altra non esposta metaforicamente sul banco del governo, tutti i sassolini messigli nei 14 mesi di governo dai grillini. Ai quali ha solo rimproverato, con un buffetto, la scortesia fattagli lasciando l’aula di Palazzo Madama, sia pure per protesta contro l’assente Salvini, quando gli è toccato di sostituire il ministro dell’Interno riferendo proprio sulla “vicenda russa”. Dalla quale tuttavia il presidente del Consiglio dichiarò allora di non avere ricavato elementi che potessero impedirgli di confermare la propria fiducia al suo vice.
Non una parola, non un sassolino Conte ha tirato fuori, con la lingua o con le mani, a proposito di quella pur recente seduta del Senato che egli dovette disertare per voltare la testa dall’altra parte di fronte alla mozione presentata dai grillini contro la Tav -la realizzazione cioè della linea ferroviaria ad alta velocità per il trasporto delle merci fra la Francia e l’Italia- anche o soprattutto dopo la sua decisione di sbloccare l’opera, essendone più costosa la rinuncia.
I ripetuti applausi a Conte da parte dei senatori del Pd, guidati questa volta in aula personalmente da Matteo Renzi come oratore di punta, non debbono essere piaciuti al non senatore, né deputato, ma segretario del partito Nicola Zingaretti. Che, avendo fiutato nella lunga parte finale del discorso del presidente del Consiglio una sua ricandidatura a guidare un governo appoggiato dai piddini, o con la loro partecipazione, ha addirittura anticipato l’intervento di Renzi con una dichiarazione di sostanziale indisponibilità.
Se nuovo governo e nuova maggioranza dovranno essere, ha praticamente avvertito Zingaretti senza aspettare la riunione odierna della direzione del partito e il suo turno nelle consultazioni al Quirinale, bisognerà cambiarne anche la guida. E ciò ha aperto, anche con una telefonata di Luigi Di Maio allo stesso Zingaretti, un altro problema grosso come una casa fra i grillini, già divisi fra di loro sulla gestione e sulle prospettive della crisi, non bastando a tenerli uniti la paura delle elezioni anticipate. Che potrebbero risolversi peggio ancora delle elezioni europee del 26 maggio scorso, nelle quali essi hanno dimezzato i voti dell’anno scorso.
La portata dell’intervento extraparlamentare, diciamo così, del non senatore né deputato Zingaretti è stata chiaramente avvertita sul Fatto Quotidiano, molto letto e apprezzato sotto le cinque stelle, dal direttore Marco Travaglio. Al quale l’aperitivo in qualche modo offertogli da Conte col processo a Salvini è andato di traverso a leggere le dichiarazioni del segretario del Pd.
Pertanto, sentendo allontanarsi il ribaltone giallorosso e avvicinarsi invece un ricorso alle urne magari solo un po’ meno anticipato di quanto chiesto da Salvini, il direttore del Fatto ha concluso così il suo editoriale di giornata contro il leader leghista: “Ora il Cazzaro è al punto più basso della sua parabola politica. Solo il Pd può salvarlo. E pare che, ancora una volta, stia lavorando per lui”, nonostante o a dispetto dell’altro ribaltone: quello compiuto all’interno del partito dall’ex odiatissimo Renzi passando dai pop corn alle danze sotto le Cinque stelle.