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Ecco le aspirazioni e i sogni di Matteo Renzi

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I Graffi di Damato

Non so se Matteo Renzi sappia che quel “Forse Italia” fatto stampare sotto la foto di Antonio Tajani sulla prima pagina del suo Riformista, peraltro declassando lo stesso Tajani a semplice ministro, e non anche vice presidente del Consiglio e segretario del partito, non è soltanto una sua trovata polemica più o meno fortunata per scrivere del movimento azzurro a più di due mesi ormai dalla morte del fondatore e presidente Silvio Berlusconi, non sostituito né sostituibile.

Di “Forse Italia” capitò di parlare ironicamente, con altre variabili, a Marcello Dell’Utri quando ancora il partito azzurro non era ancora nato ma lui già se ne occupava per l’organizzazione e la selezione delle prime candidature al Parlamento, fra i quadri della sua Pubblitalia. “Forse Italia”, appunto, o “Sveglia Italia” e simili dopo avere capito, senza bisogno che glielo comunicassero ufficialmente, che Berlusconi si sarebbe fatto assistere anche politicamente dal buon Gianni Letta, esonerandolo peraltro da ogni obbligo di iscrizione al partito o di candidatura alla Camera o al Senato. Cui d’altronde l’interessato non si sarebbe mai lasciato tentare di suo, bastandogli e avanzandogli quel che di pubblico si era già saputo guadagnare di suo facendo il giornalista di area democristiana negli anni in cui la Dc era davvero il centro della politica italiana. E lui a Roma era stato l’unico, dirigendo Il Tempo, a sapere andare perfettamente d’accordo sia con Giulio Andreotti sia con Amintore Fanfani, in ordine rigorosamente alfabetico. Un miracolo in quei tempi, ancor più che, a livello nazionale, fra Fanfani e Aldo Moro, sempre in ordine alfabetico.

Se il socialismo di Bettino Craxi, pur amicissimo di Berlusconi, evocava troppo la sinistra in certi ambienti che adoravano il Cavaliere sperando ch’egli entrando in politica, anzi salendovi, riuscisse a far diventare ricchi tutti gli italiani, il democristianismo di Gianni Letta procurava un po’ d’orticaria a chi si aspettava davvero una cosiddetta rivoluzione liberale. Neppure nella versione “storica” proposta o teorizzata dal segretario del Pci Enrico Berlinguer, o proprio in quella al massimo livello, il “compromesso” di casa fra i democristiani era guardato con sospetto, se non con avversione, da chi si aspettava, anzi reclamava scelte precise, nette: di qua o di là, si diceva allora.

Renzi, peraltro proveniente pure lui familiarmente dalla Dc, pur di sinistra, come apprese con stupore una volta in televisione Ciriaco De Mita dallo stesso Renzi, che parlava però del suo papà, pensa ormai di poter pescare a pieni voti nell’area elettorale presidiata secondo lui dal troppo timido, paziente Tajani. E per pescare ancora meglio ha spinto sempre più a sinistra il socio di breve durata del cosiddetto terzo polo Carlo Calenda. E medita, a divorzio finalmente consumato, più ancora del matrimonio improvvisato l’anno scorso, di chiamare “Centro”, o qualcosa di simile, ciò che rimarrà del suo albero dopo la caduta autunnale delle foglie di Calenda.

Fra “le chat di partito” attribuite all’ex presidente del Consiglio sul Corriere della Sera da Claudio Bozza, con tanto di virgolette, c’è anche questa: “Nessuna polemica con Calenda. Lasciamo che Carlo litighi da solo. Per noi conta fare concorrenza a Tajani da una parte e al Pd dall’altra perché il centro sia decisivo in Europa come in Italia”. Ma dal Pd, si sa, Renzi dopo averlo lasciato è riuscito a portar via ben poco, quasi niente anche in termini che una volta si chiamavano di “nomenclatura”, alla sovietica. La stragrande maggioranza degli amici di un tempo ha preferito restarsene al Nazareno. E non è detto che riesca a farli andar via tutti la Schlein trattandoli come li tratta, cioè male. La direzione più a portata di mano per il senatore toscano resta quella forzista, o forsista, come adesso la chiama sfruculiando.

Il guaio però per Renzi è che in quella direzione comincia a guardare anche la Meloni, costrettavi in qualche modo proprio da Tajani che ha deciso di crearle problemi sulla strada del decisionismo imboccata vantandosi di avere deciso da sola la tassazione degli extraprofitti delle banche, compresa la Mediolanum a partecipazione berlusconiana, per l’aumento dei tassi d’interesse solo a chi ha bisogno di indebitarsi, e non di chi risparmia.

Premuta anche dall’altro vice presidente del Consiglio, quello leghista, che in Europa sogna di imbarcare in una nuova maggioranza anche la sua alleata francese Marine Le Pen, rifiutata invece da Tajani al pari della destra tedesca, Meloni è stata così rappresentata da Ciriaco Tommaso su Repubblica: “Non può scegliere Salvini, non può scegliere Tajani. Deve restare in equilibrio, con il rischio che la battaglia tra i suoi vice sfibri il governo. E rovini quel che resta delle sue vacanze” in Puglia, ora che è tornata dall’Albania.

Ma francamente mi sembra un’analisi sbagliata, almeno per ora. Una scelta la Meloni l’ha fatta: per Salvini e contro Tajani, temendo evidentemente più il primo che il secondo. Cioè pensando di doversi guardare più da Salvini che dal segretario azzurro, di cui si è rifiutata -dicendo con pesante ironia che gliene manca “l’autorevolezza”- di accettare il veto contro la destra francese in vista di nuovi equilibri nella prossima edizione dell’Europarlamento. E pure della destra tedesca c’è una parte del Partito Popolare Europeo, di cui Tajani forse non si è ancora accorto, che comincia a non avere più tanta paura, o avvertire tanto schifo, se la ritiene già preferibile ai socialisti a qualche livello locale.

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