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I Graffi di Damato. Beppe Grillo inciampa rovinosamente nella vicenda giudiziaria del figlio

Beh, sarei disonesto se non riconoscessi a Beppe Grillo il coraggio che ha avuto attaccando “giornalisti o giudici”, pur accomunati con un punto interrogativo che non so se più offensivo verso gli uni o gli altri, per il rischio che corrono il figlio e tre amici di essere processati per stupro. E ciò paradossalmente dopo avere subìto il torto, par di capire, di non essere arrestati due anni fa, quando furono accusati di stupro da una studentessa attardatasi troppo nella denuncia: otto giorni, pensate, non otto anni, risultati sufficienti o credibili in altri casi.

Ma per coraggio intendo non la “vergogna” gridatagli addosso a Grillo dagli onorevoli avversari politici, che hanno potuto permetterselo per quel poco di immunità parlamentare che è rimasta a proteggerli, bensì quella che il dizionario della lingua italiana definisce “sfacciataggine, imprudenza” per lo sconcerto che troppo coraggio può a volte suscitare per le circostanze in cui viene mostrato.

Le circostanze nel caso di Grillo sono quelle della sua figura: un uomo certamente, un padre, un marito, un comico al quale può professionalmente sfuggire anche del “coglione” dato al figlio e agli amici protagonisti di una notte a dir poco sfortunata, ma anche – e per sua scelta, non per mia o per altri che dovessero condividere le mie opinioni – un leader politico. Che, pur lasciando ad altri nel suo MoVimento 5 Stelle – si scrive così – la carica formale di capo, o simile, gli rimane sopra come “responsabile”, “elevato” e non ricordo cos’altro gli sia sfuggito di dire per definirsi.

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Ed è un leader – purtroppo per lui, visto lo sfogo al quale si è abbandonato – che ha sempre reclamato il dovere civico, costi quel che costi, di nutrire fiducia nella magistratura. E, oltre a deridere gli imputati di turno, ha generalmente scambiato le critiche, gli attacchi ai magistrati per interferenze, intimidazioni e simili. Che è esattamente quanto l’ex ministra Maria Elena Boschi non ha avuto torto ad accusare Grillo di avere fatto questa volta “usando il suo potere mediatico e politico” così male da “imbarazzare” persino le cinque stelle disinvolte, come gli ha rimproverato persino Il Fatto Quotidiano.

Non vorrei farmi illusioni, ma penso che questo infortunio politico -“suicidio”, ha titolato Il Giornale – potrebbe risultare fatale a Grillo e al suo movimento, che è stato la più clamorosa bolla prodotta dall’antipolitica. Grillo è politicamente cresciuto in Italia di più e più rapidamente di quanto non avesse fatto una ventina d’anni prima Antonio Di Pietro. La cui bolla politica si sgonfiò all’improvviso con lo spillo di una trasmissione televisiva nella quale Milena Gabanelli mise in fila fatti e numeri, peraltro già noti, della gestione patrimoniale del suo partito, chiamato Italia dei Valori, non solo bollati. Egli fu steso politicamente così a terra da diventare inappetibile persino ai grillini, ai quali l’ex pubblico ministero aveva dato l’impressione, a torto o a ragione, di offrirsi senza ottenere nulla di più che sorrisi a qualche manifestazione pentastellata. Eppure Di Pietro poteva ben vantarsi di esserne stato un precursore.

Se fossi nei panni di Giuseppe Conte, mi guarderei bene dal raccogliere quella specie di staffetta politica che gli ha offerto Grillo. Ma temo, per lui, che non lo farà perché a dargli questo consiglio, prima ancora che Grillo scivolasse sulla vicenda del figliolo, è stato in una intervista a Repubblica l’odiato Matteo Renzi. Il dispetto riesce ad essere a volte più forte della convenienza.

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