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I pescatori rapiti e il problema libico che tormenta l’Italia

Pescatori

Nei giorni scorsi sono montate le proteste dei familiari dei pescatori imbarcati sui due pescherecci sequestrati dalle vedette del generale ribelle Khalifa Haftar e ancora non si intravede una soluzione. L’articolo di Natalino Ronzitti

Nei giorni scorsi sono montate le proteste dei familiari dei pescatori imbarcati sui due pescherecci sequestrati dalle vedette del generale ribelle Khalifa Haftar al largo della Cirenaica, in Libia. Ancora non si intravede una soluzione e i congiunti sono in ansia per la liberazione dei pescatori, ormai prigionieri dei libici dall’1 settembre scorso. Le polemiche sono aumentate dopo che si è saputo che il nostro cacciatorpediniere Durand de la Penne, che incrociava nella zona, non è intervenuto.

Qual è il quadro giuridico di riferimento? I due pescherecci si trovavano a circa 35 miglia da Bengasi, all’interno della Zona economica esclusiva (Zee) libica, istituita nel 2009, inclusiva dell’originaria zona di pesca proclamata nel 2005, che si trova al di sotto della mediana con l’Italia e che quindi non può essere contestata sotto questo profilo – qui non interessa l’accordo di delimitazione marittima del 27 novembre 2019 tra Libia e Turchia.

Lo Stato costiero ha diritto esclusivo di pesca non solo nelle sue acque territoriali, ma anche nella Zee, la cui estensione va ben oltre le 12 miglia del mare territoriale. La pesca nelle acque libiche da parte di battelli stranieri è quindi illegittima, tranne che non vi sia un accordo di concessione, di regola a titolo oneroso.

La situazione attuale impedisce all’Unione europea di stipulare un accordo del genere, che ricade nella sua competenza esclusiva. Ma non impedirebbe la conclusione di accordi di concessione di natura privatistica con le associazioni dei pescatori. Su questo punto ci siamo già intrattenuti e non c’è bisogno di ripetersi.

La Marina militare ha affermato come l’intervento del nostro cacciatorpediniere sarebbe stato impossibile a causa della distanza dell’incidente e per la sua dinamica. Ma il punto è un altro. Un intervento sarebbe stato legittimo? La questione è importante anche ai fini di futuri episodi.

Le questioni principali sono due: i poteri che un governo insurrezionale può esercitare nelle acque adiacenti al territorio che controlla; l’esercizio di tali poteri in conformità alle regole del diritto internazionale.

Khalifa Haftar (o chi per lui) esercita un’autorità di governo effettiva sul territorio della Cirenaica. Pertanto, tale autorità può essere esercitata anche nelle acque adiacenti per l’esercizio dei diritti di cui la Libia è titolare. A quanto pare, il Governo di accordo nazionale (Gna), cioè il governo insediato a Tripoli e riconosciuto dalla comunità internazionale, non esercita alcun controllo sull’area marittima in considerazione e non può quindi operare per far rispettare i diritti esclusivi di pesca. D’altra parte l’Italia, sia pure implicitamente, ha riconosciuto Tobruk come un’entità insurrezionale e quindi non può considerare le milizie di Haftar alla stregua di nuclei di terroristi o di pirati che assaltano i nostri pescherecci.

Più complessa è la questione delle modalità con cui il governo insurrezionale intende far rispettare i diritti di pesca. La Convenzione sul diritto del mare contiene una disposizione secondo cui lo Stato costiero è obbligato al pronto rilascio di navi ed equipaggi in caso d’infrazioni dei diritti di pesca, dietro adeguata garanzia. Ma tale disposizione è strettamente legata ai meccanismi della Convenzione, che non è stata ratificata dalla Libia. La Convenzione contiene però un’altra disposizione che proibisce la condanna alla reclusione per la pesca illegale.

Si tratta di regola ormai divenuta diritto consuetudinario e quindi applicabile anche alla Libia? È difficile dirlo. Se lo fosse, potrebbe scattare l’obbligo di intervento, previsto dall’articolo 4 delle Istruzioni di diritto marittimo per i comandi navali, a protezione delle nostre navi quando lo Stato costiero applica all’equipaggio, a seguito di fermo, sanzioni vietate dal diritto internazionale. Naturalmente l’intervento sarebbe comunque lecito qualora lo Stato costiero facesse un uso indiscriminato e sproporzionato della forza.

A parte i diritti di sfruttamento delle risorse naturali, la Zee libica, inclusa quella parte su cui esercita i poteri il governo ribelle, è una zona di alto mare a fini della navigazione e quindi la presenza di navi da guerra italiane è del tutto legittima. Sarebbe però contrario al diritto una protezione dei nostri pescherecci, dediti alla pesca non autorizzata, che ne impedisse la cattura, tranne nei casi di messa in pericolo della vita umana e di un uso sproporzionato della forza da parte delle motovedette libiche.

In attesa di una soluzione definitiva della questione libica e di un’auspicata convenzione sulla pesca negoziata dall’Unione europea, occorre riprendere la strada, che è stata interrotta, di un negoziato diretto per l’esercizio della pesca tra le associazioni dei pescatori e le autorità che controllano de facto la Cirenaica. Tale negoziato non sarebbe contrario alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu e non coinvolgerebbe la responsabilità dell’Italia.

Allo stesso tempo, e con l’urgenza che la situazione richiede, il governo italiano dovrebbe intervenire per la liberazione dei pescatori, facendo leva sulla disposizione della Convenzione del diritto del mare che proibisce l’imprigionamento degli equipaggi delle navi catturate. Benché nel caso concreto non sia obbligatoria per la controparte, tale disposizione è destinata a diventare parte di un nucleo elementare dei diritti umani che ciascuna entità, stato o insorti, dovrebbe rispettare. Tanto più che la disposizione non impedisce l’irrogazione di sanzioni pecuniarie per le infrazioni commesse.

Articolo pubblicato su affarinternazionali.it

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