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Il pragmatismo di Draghi si scontra coi bizantinismi della politica italiana

Draghi Chiude Al Bis Nadef

I Graffi di Damato

Provate ad immaginare pure voi il fastidio -a dir poco- che deve provare un uomo pratico come Mario Draghi, specie nelle sue trasferte all’estero, come quella di oggi in Ucraina col presidente francese Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Olaf Sholz, a compulsare i messaggini del suo telefonino, o a parlare con qualcuno dei collaboratori a Roma, per essere informato delle convulsioni nei partiti della maggioranza di governo dopo i risultati del primo turno delle elezioni amministrative. Che, avendoli fortemente penalizzati, hanno messo ancor più in agitazione i già malmostosi grillini e leghisti, tentati a parole dall’idea di un disimpegno, quanto meno, ammesso e non concesso che siano mai stati davvero impegnati da qualche mese a questa parte a sostegno del presidente del Consiglio.

Lui, Draghi, in asse sotto sotto con Macron, cerca praticamente di creare le condizioni, in un contesto internazionale che comprende anche americani e cinesi, per convincere il presidente ucraino ad una trattativa con Putin fornendogli l’ombrello protettivo dell’Unione Europea, cui Kiev ha chiesto di aderire. E pazienza se qualche pezzo dell’Ucraina, già perduto e in cenere, rimarrà in mani russe. In compenso potrebbero crearsi finalmente e davvero le condizioni per ridisegnare nuovi equilibri politici nei rapporti fra l’est e l’ovest d’Europa, e oltre ancora.

In Italia invece, tra i palazzi romani del potere, compresi gli uffici delle 5 Stelle frequentati da Giuseppe Conte, appena confortato dalla rinuncia dei giudici civili di Napoli di contestargli anche la seconda elezione a presidente, avvenuta peraltro con meno voti della prima ma con ancor più reclami; in Italia invece, dicevo, Draghi deve fare lavorare i suoi collaboratori sulle voci, sui segnali e cose del genere dei feriti elettorali. Deve capire se Salvini, costretto intanto al Senato a retrocedere dall’iniziale offensiva ritorsiva contro la riforma della giustizia del governo dopo il fiasco referendario di domenica, si deciderà a scegliere nel centrodestra fra l’invito di Vittorio Feltri, in linea con Giorgia Meloni, a rompere col governo e quello di Silvio Berlusconi a restare. E in questa ottica va visto anche l’ormai vicino appuntamento parlamentare del 21 giugno, quando la proroga degli aiuti militari all’Ucraina, in attesa che si avvii davvero una trattativa di pace con Mosca, dovrà passare per le parole, gli incisi, i sottintesi e quant’altro del documento di approvazione della linea del governo nel Consiglio Europeo di qualche giorno dopo.

La sensazione è che dietro tanta apparente agitazione, tante minacce, tante voglie di apparire diversi da quelli che si è, un po’ per stanchezza e un pò per opportunismo la maggioranza resisterà -come si è lasciato scappare di recente il segretario del Pd Enrico Letta con involontario umorismo- “sino all’ultimo giorno”. E che significa? mi chiederete pensando che ad ognuno di noi capiterà di vivere appunto sino all’ultimo giorno. Significa , nel nostro caso, anche oltre la fine della legislatura prevista sino a qualche mese fa per marzo del 2023. Essa potrebbe durare sino a maggio con opportuni ricalcoli, alla modica spesa aggiuntiva -calcolata da Franco Bechis su Verità Affari- di 20 milioni di euro. Ma, in compenso, con parziale consolazione di tanti parlamentari destinati a tornare a casa per il gioco perverso della riduzione dei seggi della Camera e del Senato e di quella ancora più consistente dei voti dei loro partiti. Che ne sarà poi della prossima legislatura Dio solo lo sa. E spero che Gli torni la voglia di occuparsene dopo troppi anni -temo- di sostanziale disinteresse.

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