Pubblicato il Decreto Legislativo n. 144/2024 che, in attuazione del Data Governance Act, introduce nuove…
Il vero vincitore? Il partito dell’astensionismo
E se gli assenti, visto il numero, non avessero più torto? I Graffi di Francesco Damato
Abituato per una vita a pensare e a scrivere che gli assenti, almeno quelli volontari, cioè non impediti da malanni e altre circostanze sfortunate, hanno sempre torto perché alla fine affidano la partita agli altri, mi capita alla mia bella età di dubitare dell’assunto di fronte al record di astensioni, cioè di diserzione delle urne, registrato in questo turno di elezioni un po’ di ogni tipo appena svoltosi: comunali dal nord al Sud e da est a ovest, regionali in Calabria e suppletive per la Camera a Siena e a Roma. “Vittoria a metà”, ha sintetizzato e rimproverato il manifesto con la solita titolazione felice a chi, a torto o a ragione, di questa vittoria ha rivendicato titolarità e merito.
Penso, tra i vincenti che hanno alzato mano, pugno, braccia e quant’altro, e sventolato bandiere, innanzitutto al segretario del Pd Enrico Letta. Che, eletto alla Camera in un collegio toscano nel quale sono andati alle urne 35 elettori su 100, può finalmente tornare a Montecitorio “sereno”, come lo ha rappresentato Stefano Rolli sul Secolo XIX, non come ai tempi di Matteo Renzi alla segreteria del partito, e vantarsi delle città conservate o conquistate al primo turno col centrosinistra, senza o con la partecipazione di quel che rimane dei grillini: Milano, Bologna, Napoli. Egli ha tutti i motivi di compiacersene, per carità, ma sempre a metà, come dicono al manifesto.
Penso, sempre tra i vincenti dichiarati, a Silvio Berlusconi. Che, nonostante il sorpasso subitò dalla sua Forza Italia a Milano anche ad opera dei fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, pronti a superare la prossima volta pure i leghisti, si è sentito giustamente orgoglioso del primato conservato nella regione calabrese. Dove il centro-destra, come lui adesso lo chiama con tanto di trattino da tradurre presumibilmente in una pausa mentre si pronuncia, ha sbancato concorrenti e avversari, onorando la memoria della compianta presidente Iole Santelli. Ma, ripeto, siamo sempre alla vittoria “a metà” per quella maledetta disaffezione che la sovrasta. E che Antonio Gramsci da sinistra, col fascismo che ne aveva approfittato, definiva a suo tempo “indifferenza”, aggiungendovi l’aggettivo “odiosa”.
Penso, inoltre, a Giorgia Meloni che si gonfia il petto per avere portato al ballottaggio nella sua Roma il sostanzialmente sconosciuto Enrico Michetti, ma deve ora mettere le tende davanti al Santuario del Divino Amore per pregare che la Madonna le dia una mano a convincere il buon Carlo Calenda a darle una mano nel secondo turno. Sennò vincerà il piddino Roberto Gualtieri coi voti dei grillini sconfitti con la sindaca uscente Virginia Raggi e dal naso non turato, ma turatissimo.
Penso infine, sempre tra i dichiaratamente vincenti o soddisfatti, a un Giuseppe Conte che pure si trova a presiedere un movimento ridotto ai minimi termini, in quella che Massimo Panarari sulla Stampa ha definito “la Caporetto del grillismo”, scomparso ormai al nord e concentratosi, per postazioni di potere più che per voti, nella Napoli di Roberto Fico e Luigi Di Maio. E’ sempre comunque consolante per Conte vedere scrivere di lui dal solito Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano che “fra i vari ex premier in circolazione, è di gran lunga il più apprezzato dal “popolo”. Le virgolette al popolo le ha messe lo stesso Travaglio aggiungendo con insolita prudenza che “quel ricordo non dura in eterno”. Anch’esso, d’altronde, vale “la metà”, come tutto il resto.