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Ilva bloccata, il mancato scudo penale rischia di mandare per strada 5 mila lavoratori

Ilva

L’articolo di Annarita Digiorgio su tutti i nodi da sciogliere intorno allo stabilimento Ilva, tra cui i probabili esuberi

Sicuramente quando a luglio 2017 ArcelorMittal firmò con l’allora Ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda il contratto di cessione (affitto con successivo obbligo di acquisto) di Ilva, dopo aver vinto la gara europea da 4 miliardi per l’acquisizione (di cui 2,4 di investimenti), sapeva che la parte più difficile doveva ancora arrivare.

Ci volle un tredicesimo decreto, il dpcm 2017, e poi ci misero un altro anno, a cavallo tra il governo Renzi e il governo Conte, il via libera di Bruxelles a maggio 2018, e i ricorsi di regione Puglia e Comune di Taranto contro il dpcm, per poter finalmente entrare.

Anzi ci volle prima l’accordo sindacale del 6 settembre 2018.

Lunghe trattative notturne difficilissime, con qualche sindacalista che faceva saltare il tavolo per darla vinta alla nuova parte politica.

Solo il 1° novembre ArcelorMittal potè finalmente sostituire l’insegna.

L’ERA ARCELORMITTAL

Una settimana dopo l’ad Matthieu Jehl, presentandosi alla stampa a Taranto, disse che l’obiettivo di produzione per il 2019 era di 6 milioni di tonnellate, ovvero il livello massimo autorizzato dall’Aia, sulla base della Valutazione del rischio Sanitario, oltre i quali non si può usare il carbone.

Invece già a maggio 2019 l’obiettivo di produzione, causa la crisi del mercato, è passato da 6 a 5 milioni annui, e i 6 milioni spostati al 2020.

LE DIFFICOLTÀ INCONTRATE

Ma difficilmente riuscirà ad arrivarci. Il primo semestre si è chiuso con 2,34 milioni di tonnellate di acciaio grezzo, la produzione dal primo al secondo trimestre è passata da 12,5 a 13,5 migliaia di tonnellate al giorno, ma i tre altiforni oggi in marcia, 1, 2 e 4, già non a regime, a breve scenderanno a due. Il 4 sarà fermato per manutenzione, non più rinviabile.

Inoltre il 2 ha subito quest’estate un ulteriore sequestro della magistratura, ed ora è in facoltà d’uso vincolata alle prescrizioni.

Agli altiforni si aggiungono le limitazioni allo scarico delle materie prime ad essi necessarie a causa del sequestro del quarto sporgente del porto in seguito alla morte, a luglio, di un operaio precipitato con la gru in mare durante una tromba d’aria.

ArcelorMittal ha dovuto cercare banchine all’esterno per lo scarico di minerale e coke. Ha cercato di spostare le navi al porto di Brindisi ma è stata bloccata dal Sindaco, e anche l’ipotesi Gioia Tauro è svanita, sicché al momento lo scarico è passato al molo polisettoriale di Taranto in condizioni precarie.

LA CRISI DELL’ACCIAIO

E poi c’è l’acciaio che non si vende. Con la crisi di sovraproduzione mondiale di 550 milioni di tonnellate. E i dazi di Trump che favoriscono l’acciaio turco. E una carbon tax europea che non tutela quello autoctono non tassando quello in entrata.

“Le tensioni internazionali legate ai dazi, il forte rallentamento della congiuntura, la crisi persistente dell’auto che ha trascinato la Germania in recessione, stanno creando forti criticità sul mercato dei prodotti siderurgici e in particolare in quello dei coils a caldo. Se a questo si aggiungono le massicce importazioni a prezzi stracciati, in particolare dalla Turchia, si ha il quadro di una difficoltà che rischia di diventare sistemica.In questo quadro congiunturale, l’Acciaieria ha deciso di ridurre del settanta per cento la produzione di coils nel sito di Cremona in novembre e dicembre, chiedendo orti prese di posizione a livello di Governo nazionale ed europeo atte a salvaguardare un equo mercato”. Bisogna leggere i comunicati di Arvedi, per sapere come stanno le cose, rispetto a una molto più abbottonata ArcelorMittal, carente, oggettivamente, sul piano della comunicazione.

Ma Arvedi di dipendenti ne ha 2 mila, non 20.

 IL BUCO DI ILVA

Nell’ultimo trimestre Ilva ha perso 150 milioni, come rilevato dall’ex ad Jehl. Persino più della gestione commissariale, che pure sostanzialmente in 6 anni ha speso 16 miliardi del bilancio pubblico solo per pagare gli stipendi tenendo la produzione fissa a 4,5 milioni di tonnellate per non superare limiti ambientali, ma molto lontano dal punto di pareggio.

La proiezione attuale, su base annua, contempla 600 milioni di perdite. Tant’è che l’azienda ha circoscritto un piano per ridurle “significativamente” entro il quarto trimestre, con ulteriore cassa integrazione. Non prevista dal contratto.

Secondo il segretario della Fim Marco Bentivogli, a 4 milioni di tonnellate di acciaio prodotte, corrispondono 4 mila dipendenti. Ilva oggi ne contempla in attivo il doppio. Lo Stato tramite Ilva in AS non è riuscito a integrare neppure i 300 per le bonifiche interne come da obbligo di contratto.

VIA SCUDO PENALE E NUOVO AD

E poi c’è lo scudo penale tolto dal Parlamento. E il nuovo Presidente Lucia Morselli.

Praticamente una lettera di 5 mila esuberi già firmata.

A tutto questo si aggiunge l’incognita del riesame dell’Aia avviato dal ministro dell’Ambiente Sergio Costa.

Nonostante l’intenzione propagandata dal Sindaco di Taranto sia quella di prescrizioni ambientali più stringenti, se, come da nuova legge, l’Aia dovesse essere correlata alla Valutazione del rischio sanitario, certamente aumenterebbe la facoltà del limite annuo di produzione, essendo la situazione sanitaria migliorata rispetto alla gestione Riva (anni a cui si riferisce la precedente VDS).

Quindi ci accingiamo ad avere una situazione paradossale per cui finalmente secondo la legge ambientale, alla luce dell’attuazione delle prescrizioni di copertura parchi minerari, nuovi filtri e revamping batterie e altoforni, Ilva potrebbe produrre fino a dieci milioni di acciaio l’anno.

Ma a non consentirlo oggi è il mercato.

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