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L’Italia è davvero un modello anti Covid?

“L’Italia è diventato il modello cui si guarda sulle misure da mettere in campo contro la pandemia, è la piattaforma di know how, anche per il resto dell’Europa e del mondo”, diceva l’Oms a metà marzo. Vediamo se e come il “modello Italia” ha funzionato contro Covid. Il punto di Michele Arnese, direttore di Start, prima dell’operazione vaccini…

Nel contrasto della pandemia “l’Italia è stata un esempio scintillante, con unità nazionale e solidarietà, impegno comune e umiltà”, disse a settembre il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, in videocollegamento con il forum ad Assisi “Cortile di Francesco”. “L’Italia – aggiunse il direttore generale dell’Oms – ha preso decisioni difficili ed ha insistito su quelle, riducendo la trasmissione e salvando molte vite. L’Oms è fiera di aver lavorato con l’Italia a livello quotidiano creando una rete di fiducia reciproca”.

Ancora più calorosi a metà marzo gli elogi di Hans Kluge, direttore regionale Oms per l’Europa, e Dorit Nitzan, coordinatrice delle emergenze sanitarie dell’Oms: “Ora l’Italia è diventato il modello a cui si guarda sulle misure da mettere in campo, è la piattaforma di know how, anche per il resto dell’Europa e del mondo”.

Guardiamo ai dati della Johns Hopkins University. In due distinti grafici, l’Italia, tra i venti Paesi più colpiti dal virus Sars-Cov-2, occupa rispettivamente la terza e la prima posizione.

Nel primo dei due grafici, postati sul sito dell’università, l’Italia occupa il terzo posto nella classifica che riguarda il tasso di letalità (case-fatality, secondo il relativo standard), che è dato dal rapporto tra il numero dei deceduti e quello dei contagiati. Esprime in qualche modo la probabilità di un possibile decesso, tra coloro che hanno subito il contagio. Per l’Italia questo rischio è valutato nel 3,5 per cento dei casi.

Nel secondo grafico (numero dei morti per 100 mila abitanti) l’Italia occupa il primo posto, con un valore pari a 119,7. Seguita da Spagna (107,27) e dalla Gran Bretagna (107,11). In Germania l’indice è pari a 37,56.

Perché così tanti morti in Italia?

Anche per dichiarazioni di alcuni medici e prof. da tempo si bisbiglia: l’Italia calcola come decessi Covid anche chi muore con il Covid avendo altre patologie gravi.

I bisbiglii sono stati confutati in un’analisi recentemente pubblicata che – non solo sull’Italia – ipotizza peraltro che i morti siano sottostimati e non sovrastimati.

A questo si aggiungono dubbi e interrogativi – mai dissolti – sulla gestione delle autopsie.

Ma è un’altra la spiegazione sui record di morti in Italia a causa della pandemia che viene ripetuta anche ai più alti livelli istituzionali: il nostro Paese ha una popolazione molto anziana che, a differenza di altre nazioni, vive spesso con figli e nipoti.

Molti si sono coccolati con questa spiegazione.

Ma sere fa – incalzato dal giornalista Luca Telese – Walter Ricciardi, membro italiano del board dell’Oms e consigliere del ministro della Salute, Roberto Speranza (Pd), sbotta in tv: “In Germania la mortalità è più bassa che da noi per tre motivi. Il problema non è la demografia, perché la demografia è più o meno la stessa. La differenza è nell’investimento che da 10 anni la Germania fa sulla sanità. Io nel 2015 ho scritto un libro che si chiamava “La tempesta perfetta”, una tempesta che ci avrebbe travolto se avessimo continuato a non fare tutto quello che non abbiamo fatto: assunzione di medici, rinnovamento delle strutture e finanziamento della sanità”.

“Il problema non è la malasanità – ha aggiunto Ricciardi – Faccio un esempio, in Germania su 80 milioni di abitanti ci sono 28mila letti di terapia intensiva. In Italia per 60 milioni di abitanti ci sono 5mila letti di terapia intensiva. Se volessimo gli stessi parametri di organico di infermieri, dovremmo assumere 53mila infermieri. È chiaro che in Germania le persone non muoiono. Letti di terapia intensiva hanno bisogno di personale qualificato. Quando questo personale non ce l’hai la gente muore”.

Sorge una domanda, a questo punto: ma dopo la prima fase della pandemia – mentre lo stesso Ricciardi dall’alto delle sue cariche nell’Organizzazione mondiale della sanità sminuiva il ruolo delle mascherine e sghignazzava contro chi in Veneto – in primis il microbiologo Crisanti – invocava di aumentare i tamponi per tamponare il coronavirus – si è preparato per bene il servizio sanitario nazionale per fronteggiare le successive fasi? Sono stati decisi protocolli precisi su come curare i malati Covid a casa e in ospedale? Sono state mandate indicazioni specifiche su metodi e cure ai medici di base? E si è fatto davvero tutto il possibile e in tempo utile – al netto di rimpalli di responsabilità fra Stato e regioni – su organizzazione degli ospedali e terapie intensive?

Vista come è stata fronteggiata la cosiddetta seconda ondata della pandemia, non pare proprio che l’Italia possa essere indicata come modello di efficienza ed efficacia.

Beninteso, qui non si vuole indulgere in questioni quasi di contorno se non folcloristiche come i piani del commissario all’emergenza, Domenico Arcuri, su mascherine e banchi a rotelle per le scuole.

Ma sarebbe bello capire chi, come e quando doveva aggiornare il piano pandemico che era fermo al 2006. E se quello vecchiotto è stato rispettato o no. Ossia: c’erano o no le scorte di farmaci e dispositivi di protezione? La vicenda – ossia il caso di Ranieri Guerra – deve essere ancora chiarita.

Perché la questione non è oziosa. Basta ricordare quello che ha detto non Sigfrido Ranucci – il conduttore di Report, la trasmissione di Rai3 che ha sollevato il caso del piano pandemico non aggiornato e sul ruolo controverso e criticato di Guerra, prima direttore della Prevenzione al ministero della Salute e poi direttore aggiunto dell’Oms che sorvegliava dunque un report dell’Oms sulla reazione dell’Italia alla pandemia – bensì Agostino Miozzo, coordinatore del Cts (Comitato tecnico scientifico).

Domanda: “Esisteva un Piano pandemico generale al 7 febbraio, prima riunione del Cts?”.

Rispose a settembre il coordinatore del Cts: “Mancavano i reagenti, una di quelle cose che un Piano pandemico avrebbe dovuto prevedere. Limitare i tamponi era una scelta obbligata. Non c’erano neppure le mascherine. Niente. Una Ffp2, una chirurgica. Da piangere. A metà marzo ho inventato le mascherine di comunità. Volevo preservare i dispositivi professionali per medici e infermieri e ho iniziato a dire: mettiamoci una fascia, una sciarpa, un foulard”.

Ma neppure il Cts può fare il maestrino.

“Visto che il Comitato tecnico scientifico ha di fatto accentrato a sé le regole rilevanti anti pandemia, mi aspettavo dal Cts criteri di ospedalizzazione e protocolli di trattamento. Non ci sono stati e ora c’è il caos nei pronti soccorso e negli ospedali, dove ogni medico decide in autonomia visto che non ci sono uniformi criteri di ospedalizzazione e protocolli di trattamento”, ha detto a fine ottobre (si noti: a fine ottobre) Matteo Bassetti, direttore della clinica di Malattie infettive dell’ospedale San Martino di Genova: “Non ci sono criteri nazionali condivisi per chi ricoverare (quelli liguri sono disponibili). Risultato? Gli ospedali e i pronto soccorso italiani sono allo stremo perché si mischiano i casi di chi ha veramente bisogno dell’ospedale con quelli che potrebbero essere seguiti a casa”, ha aggiunto Bassetti.

Solo a fine novembre è arrivata la circolare del ministero della Salute con le linee guida per curare i pazienti Covid a casa.

Ah, ma per fortuna c’era la medicina territoriale, i medici di famiglia, i medici di base vicini ai pazienti. Vanto della Nazione.

Certo. “Con pochi sintomi, prenda la Tachipirina. Tachipirina anche in caso di febbre”: queste – di solito, in base anche alle lettere ricevute da Start – le indicazioni per i positivi Covid.

Poi i non addetti ai lavori scoprono che — come sottolineano gli stessi medici di base — non c’è alcun collegamento strutturale e procedurale con il Servizio sanitario nazionale.

Ha scritto un medico in pensione senza peli sulla lingua:  “Quella che un Ssn (Servizio sanitario nazionale) moderno non può permettersi che i Medici di medicina generale siano medici convenzionati e non siano medici dipendenti, come gli ospedalieri. Ossia che essi, ancor oggi, siano legati ad un accordo nazionale presso la Sisac, invece che a un Ccnl presso l’Aran. Non si tratta di tecnicismi, ma di sostanza. Diverso l’orario di lavoro, diverse le regole, diverse le retribuzioni e i comportamenti. Sia chiaro, sono un vecchio liberale e rispetto le competenze di ognuno. Ma, in tempi di guerra e di post-guerra, non ci si può attaccare alle regole dell’accordo nazionale per non fare i tamponi, per non fare le vaccinazioni, per curare via telefono i pazienti malati a domicilio”.

È questo il modello Italia secondo l’Oms?

Articolo pubblicato su startmag.it

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