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La giustizia di Bonafede

Bonafede

I graffi di Damato

Fra i vari, troppi inconvenienti del decreto legge approvato a tamburo battente dal Consiglio dei Ministri per  fare rimandare nelle celle, e chiuderli bene a chiave, o piantonarli a dovere in qualche ospedale, i mafiosi e narcotrafficanti, veri o presunti, condannati o ancora sotto processo, trasferiti a casa dai giudici di sorveglianza per paura del coronavirus, c’è l’assai infelice coincidenza col giorno in cui il capo dello Stato in persona ha ricordato i 42 anni trascorsi, appunto ieri, dalla terribile morte di Aldo Moro. La cui carriera ministeriale cominciò nel 1955 proprio dove siede ora il guardasigilli grillino Alfonso Bonafede, che questo decreto ha voluto  per scrollarsi di dosso, in tempo per i suoi prossimi appuntamenti parlamentari, appesantiti da una mozione di sfiducia individuale depositata al Senato dal centrodestra, il sospetto di non essere stato abbastanza duro con i detenuti di mafia. Moro – credetemi – per dottrina penale, di cui era professore, e per formazione politica non si sarebbe mai lasciato tentare da un provvedimento del genere. Che somiglia più a uno straccio che ad una bandiera,  sventolata invece sulla prima pagina dal Fatto Quotidiano.

Un uso così strumentale di un decreto legge, a fini più emotivi che reali, si era visto solo nel 1991 ad opera dell’allora guardasigilli socialista Claudio Martelli con l’avallo di un presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, cui poi non fu risparmiata per questo l’onta dell’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. L’ho già ricordato e lo ribadisco, ora che Bonafede è stato aiutato a Palazzo Chigi da Giuseppe Conte in questa specie di controffensiva dopo lo scontro mediatico avuto col consigliere superiore della magistratura Nino Di Matteo. Che ancora non gli perdona, dopo due anni, di avergli proposto e poi negato la nomina a capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria mentre – guarda caso – i boss mafiosi in carcere minacciavano proteste.

Ora tutto sarebbe a posto, secondo Bonafede e Conte. Entro 15 giorni i giudici di sorveglianza rivedranno le pratiche e decideranno se confermare o no i loro provvedimenti alla luce di nuove valutazioni sull’andamento dell’epidemia, sulla capienza delle strutture penitenziarie e  sulla disponibilità dei posti in ospedale. Poi se ne occuperanno ogni 30 giorni, sino a quando tutti i liberati – saliti nel frattempo da più di 300 a più di 400 – non torneranno dove la stragrande maggioranza della gente comune, e degli elettori, li vorrebbe naturalmente vedere.

Nel frattempo questa gente comune, diciamo così, può risparmiarsi ogni scomoda riflessione su un passaggio così poco discutibile dell’amministrazione della giustizia, intesa in senso lato e minuscolo, festeggiando la liberazione – finalmente – della giovane volontaria italiana Silvia Romano, sequestrata un anno e mezzo fa a fini estorsivi dalle solite bande armate in Kenia. Alla povera e inconsapevole Silvia – ben tornata a casa, naturalmente – capita in fondo l’involontaria missione pacificatrice degli animi svolta nell’estate del 1948 da Gino Bartali vincendo alla grande in bicicletta in Francia dopo l’attentato a Palmiro Togliatti in Italia. Dove si temeva una rivolta dei comunisti che non avevano ancora digerito la sconfitta elettorale del 18 aprile.

Ah, quanti scherzi riesce a produrre la politica anche in questi tempi di coronavirus, in cui comunque anche ad Eugenio Scalfari  su Repubblica viene il sospetto, sia pure per altri versi, che quella di Conte, da lui stimatissimo, sia “una posizione incerta”, letteralmente.

Articolo tratto da I graffi di Damato

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