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La strage di Capaci 27 anni dopo

I Graffi di Damato sul 23 maggio, a 27 anni dalla strage di Capaci

No. Il 23 maggio, come il 9 di questo stesso mese, il 16 marzo, il 19 luglio e il 3 settembre non sono giorni normali, ordinari, in cui si possa rimanere incollati alle cronache quotidiane della politica, per quanto importanti siano quelle delle ultime battute di una campagna elettorale dai cui risultati potrebbe dipendere, a sentire alcuni vaticini, la stessa prosecuzione della legislatura cominciata l’anno scorso. Eppure domenica 26 si andrà a votare “solo” per il rinnovo del Parlamento europeo, del Consiglio regionale del Piemonte e di più di 3700 amministrazioni comunali.

Nei cinque giorni che ho indicato la mente e anche il cuore, specie per i meno giovani che hanno avuto la ventura di vivere più intensamente fatti di particolare ferocia e rilevanza politica e sociale, saltano indietro e riprovano lo stesso dolore, la stessa angoscia. E ciò anche per i misteri che ancora circondano i delitti plurimi allora commessi: misteri che peraltro col passare degli anni sono cresciuti, anziché diminuire.

L’ANNIVERSARIO DEL 23 MAGGIO

Il 23 maggio è il giorno in cui 27 anni fa furono uccisi nella strage di Capaci, mentre cercavano di raggiungere Palermo dal vicino aeroporto di Punta Raisi, il magistrato più famoso impegnatosi contro la mafia, Giovanni Falcone, la moglie  Francesca Morvillo, magistrata pure lei, e gli agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Il 9 maggio è il giorno in cui 41 anni fa i brigatisti rossi uccisero Aldo Moro dopo averlo sequestrato il 16 marzo a poca distanza da casa sterminandone la scorta, composta da Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Francesco Zizzi, Giulio Rivera e Raffaele Iozzino. Il 19 luglio è il giorno in cui, poco più di due mesi dopo la strage di Capaci, venne ucciso in via D’Amelio, sotto la casa palermitana della madre, il magistrato più legato a Falcone, Paolo Borsellino. Il quale fu distrutto con un carico di esplosivo che sterminò anche la scorta, composta da Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Il 3 settembre è il giorno in cui 37 anni fa furono uccisi dalla mafia il prefetto di Palermo e generale dei Carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa, la giovane moglie Emanuela Setti Carraro, che guidava l’auto in cui viaggiavano, e l’agente di scorta che li seguiva, Domenico Russo.

Scrivevo dell’angoscia che procura anche il ricordo di quei fatti orribili per i misteri che ancora li avvolgono, persino più numerosi di prima. Ebbene, me ne ha procurata tantissima la lettura di un articolo sulla strage di Capaci, ma anche su quella successiva del 19 luglio e delle altre di segno mafioso compiute fra il 1992 e il 1993,  affidato al Fatto Quotidiano dal Procuratore Generale della Corte d’Appello di Palermo Roberto Scarpinato. Che, alla vigilia della cerimonia organizzata per Falcone in un clima di polemiche scatenatesi per la partecipazione del ministro dell’Interno Matteo Salvini, ha voluto motivare l’”imbarazzo” col quale partecipa alle celebrazioni di quegli eventi drammatici, generalmente caratterizzate più dalla “retorica” che dalla consapevolezza della verità ancora incompiuta, per quanti processi si siano svolti e condanne siano state emesse dai tribunali.

Mi ha gelato il sangue, diciamo così, l’articolo di Scarpinato, di straordinaria efficacia -debbo riconoscere- per stile, conoscenza dei fatti e delle carte processuali, e per il modo in cui sono state collegate fra di loro  dichiarazioni rese in sede giudiziaria da pentiti di mafia e collaboratori di giustizia. Che sono tuttavia accomunate generalmente da un carattere indiretto: tutte, o quasi,  rivelatrici di  cose ascoltate o attribuite ad altri, o incomplete e contraddittorie, come le deposizioni dei fratelli Graviano lamentate dallo stesso Scarpinato.

DIETRO AL DECRETO LEGGE SULL’ART. 41 BIS

Più che il sospetto, l’alto magistrato di Palermo ha mostrato la convinzione che le stragi che portano il nome e i segni distintivi della mafia non le appartengano del tutto. Esse sarebbero state ordinate dai vertici mafiosi, ed eseguite, nascondendone alla manovalanza e alle strutture non apicali dell’organizzazione criminale le vere ragioni, non esauribili nella vendetta o in una ordinaria, se si può definire tale, intimidazione per ottenere dallo Stato, ad esempio, trattamenti carcerari meno duri ai detenuti appartenenti a Cosa Nostra. Proprio a quest’ultimo proposito, per esempio, Scarpinato contesta la convenienza, per la mafia, dell’assassinio di Paolo Borsellino in prossimità della scadenza del decreto legge che aveva istituito dopo la strage di Capaci il carcere duro del 41 bis: un decreto legge, secondo Scarpinato, di cui non poteva essere considerata scontata la conversione, come invece divenne con la mattanza di via D’Amelio.

Insomma, la mafia avrebbe fatto le stragi anche contro i suoi interessi perché i capi, tradendo gli affiliati, si sarebbero messi al servizio di ordini e strategie “esterne”. Di cui il Procuratore Generale ha intravisto l’origine nel 1991, quando si svolsero nelle campagne di Enna riunioni finalizzate a far partecipare la mafia ad un disegno generale di “destabilizzazione” del Paese: un disegno -si deve presumere- via via cresciuto, cui avrebbero aderito in un secondo momento nuovi soggetti interessati a disarticolare l’Italia.

Solo così si spiegherebbe il sospetto manifestato, in verità, non da Scarpinato nel suo articolo sul Fatto Quotidiano, ma da altri inquirenti di mafia -ultimo, il sostituto procuratore Roberto Tartaglia in una intervista sempre al Fatto Quotidiano– di una qualche utilità trovata o addirittura cercata, fra le pieghe delle stragi, da Silvio Berlusconi. Che nel 1991, francamente, non immaginava neppure di scendere in politica, essendo sopraggiunta solo l’anno dopo la tempesta di Tangentopoli destinata a spazzare via la cosiddetta prima Repubblica.

A proporre, chiedere, ottenere e quant’altro ai capi della mafia la partecipazione ad un piano di destabilizzazione generale, in cui proliferò poi anche la “trattativa” con lo Stato oggetto di un processo d’appello in corso a Palermo dopo le condanne di primo grado, sarebbero stati servizi segreti “deviati”. Che i capi della mafia catturati e condannati dopo le stragi avrebbero coperto sino alla morte, come nel caso di Bernardo Provenzano e Salvatore Riina. A quei servizi, e loro dintorni, è ascrivibile, secondo quel che si capisce dalla lettura dell’articolo di Scarpinato, “la straordinaria longevità della latitanza di Matteo Messina Denaro”. Meno male, verrebbe da dire, che ad essere sospettati o sospettabili, sempre seguendo i ragionamenti di Scarpinato, sono solo servizi “deviati”, e non di più, cioè i servizi nella loro interezza, e quindi lo Stato stesso, cui non a caso una certa pubblicistica intesta le stragi più ancora che alla mafia.

 

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