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Le bizzarre tesi di Travaglio sul processo a Salvini

Salvini Giustizia

I graffi di Damato

Sentite questa perla di democrazia giudiziaria, come la chiamerebbe Angelo Panebianco, se ve la siete persa in diretta godendovi, si fa per dire, la puntata del salotto televisivo di Lilli Gruber dedicata l’altra sera al processo in cantiere contro il ministro dell’Interno Matteo Salvini per l’affare Diciotti. Che è il nome del pattugliatore della Guardia Costiera italiana dove nella scorsa estate, per quanto ancorata nel porto di Catania, per ordine del Viminale rimasero bloccati un bel po’ di migranti, doverosamente soccorsi in mare ma in attesa di essere presi in carico, diciamo così, da più paesi disposti, in ambito europeo, ad accoglierli su sollecitazione del governo italiano.

La vicenda si concluse con la partecipazione della Chiesa alla distribuzione degli aspiranti profughi, ma era destinata a sviluppi giudiziari, l’ultimo dei quali è costituto dalla richiesta del cosiddetto tribunale dei ministri di Catania al Senato, nonostante l’archiviazione proposta dalla Procura, di autorizzare il processo a Salvini per sequestro aggravato di persone e abuso d’ufficio.

L’ART. 96 DELLA COSTITUZIONE

Di fronte alla possibilità riconosciuta dall’articolo 96 della Costituzione, e da una legge costituzionale di attuazione, che il Senato a maggioranza assoluta neghi l’autorizzazione ravvisando nell’azione del ministro Salvini il perseguimento di un superiore interesse pubblico, prevalente anche sulla contestazione di reati da parte dal tribunale dei ministri, Marco Travaglio ha sostenuto che in tal caso l’Italia subirebbe -sentite, sentite- un danno gravissimo di delegittimazione internazionale.

L’OPINIONE DI TRAVAGLIO SUL PROCESSO A SALVINI

In particolare, pur riconoscendo il carattere “singolare” di un processo da cui Salvini avrebbe ragione a reclamare di essere assolto – e ciò sia per la natura chiaramente ministeriale e non personale o corruttivo dei reati contestatigli, specie dopo la corresponsabilità proclamata, anzi rivendicata dall’intero governo, ora anche con una dichiarazione del presidente del Consiglio Giuseppe Conte– il direttore del Fatto Quotidiano ha sostenuto che il Senato debba rinunciare al diritto riconosciutogli dalla Costituzione di impedire la prosecuzione dell’azione penale.

Solo un’assoluzione di Salvini con sentenza giudiziaria, e con i tre gradi previsti ancora dal nostro sistema, dimostrerebbe al mondo intero, e persino agli scafisti, che potrebbero trarne finalmente le conseguenze desistendo dai loro odiosi traffici umani, o destinando altrove le loro vittime, la legittimità della linea della fermezza adottata sugli sbarchi dal governo gialloverde.

Complementare a questo ragionamento di Travaglio -non meno curioso del processo in cantiere contro Salvini- è il fastidio da lui espresso visivamente e verbalmente, collegato con lo studio televisivo dal suo ufficio di redazione, per le aperture implicite o esplicite ad un voto del Senato contro la richiesta della magistratura ravvisate, a torto o a ragione, nelle dichiarazioni persino di un grillino barricadiero come Alessandro Di Battista sulla responsabilità collettiva del governo nell’affare Diciotti.

CONTRO L’IMMUNITÀ GOVERNATIVA

Come una trentina d’anni fa contro l’immunità parlamentare, disciplinata dall’articolo 68 della Costituzione e picconata sin quasi alla demolizione per facilitare e accelerare la fine giudiziaria, prima ancora che politica, della cosiddetta prima Repubblica, che già di suo -bisogna riconoscerlo- non se la passava molto bene, così ora è cominciata un’operazione oggettivamente politico-giudiziaria contro l’immunità governativa disciplinata dal 1989 dall’articolo 96, sempre della Costituzione. Che fu modificato quell’anno rispetto al testo originario per far passare i reati ministeriali dalla originaria e straordinaria competenza della Corte Costituzionale a quella della magistratura ordinaria.

Questa volta è in gioco, sull’altare del “cambiamento”, che è la parola d’ordine dei grillini non meno gridata di quella dell'”onestà”, la sorte della pur incipiente terza Repubblica. Della seconda non parliamo neppure perché forse non ci siamo neppure accorti di viverla, tanto poco è durata, e tanto confusa è stata. Ormai si cerca di marciare a tappe forzate verso un passaggio di sistema davvero, in cui la democrazia non è vera se non è giudiziaria, per tornare a Panebianco. Che forse è troppo generoso a parlare ancora di democrazia, e non di Repubblica giudiziaria e basta.

SUL RAPPORTO POLITICA-MAGISTRATURA

Nel nuovo sistema, che francamente non so neppure se destinato a rivelarsi compatibile con la democrazia diretta o digitale perseguita dagli stessi grillini, con o senza il corollario della riforma dell’istituto referendario già all’esame della Camera, il giudice non è più la voce ma la fonte stessa, e unica, del diritto.

A dare man forte alla visione di Travaglio della politica e dei suoi rapporti ancellari con la magistratura, a dispetto della lettera e dello spirito della Costituzione, è stata nello studio tele visivo de La 7 l’avvenente Irene Tinagli, angosciata dall’idea che i grillini possano perdere chissà quanti altri voti ancora in caso di soccorso a Salvini per sottrarsi al processo. O per rispettare, direi invece, le competenze e prerogative assegnate dalla Costituzione al Parlamento in caso di reati così ampiamente riconosciuti, peraltro, come ministeriali, non dettati da interessi, affari e quant’altro di carattere personale dell’imputato, parlamentare o non che sia.

Eppure, della Tinagli è appena stato pubblicato un libro sulla, anzi contro “la grande ignoranza” -che è il titolo del volume- incombente da tempo su quanti maneggiano il nostro Paese. Beh, con l’idea che ha mostrato di avere dei rapporti fra politica e magistratura, preoccupandosi più delle sorti elettorali di un partito che del rispetto degli equilibri garantiti dalla Costituzione fra i poteri, spero che la signora tratti meglio la sua materia. Che è l’economia.

 

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