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Le distanze variabili tra Giorgia Meloni e gli alleati di centrodestra

Meloni

Non solo Salvini, perché all’interno del centrodestra continuano gli alti e bassi tra Meloni con gli alleati. I Graffi di Damato 

Tutti stiamo lì a misurare di giorno in giorno, di ora in ora le distanze, all’interno del centrodestra, fra Giorgia Meloni e il vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini. Del quale il collega e amico di partito Massimiliano Romeo, capogruppo al Senato, ha spiegato in una intervista al Corriere della Sera il proposito di “recuperare un po’ dell’identità che abbiamo perso negli ultimi anni col governo di unità nazionale, in cui abbiamo pagato a caro prezzo il nostro spirito di sacrificio per il bene comune”.

Si tratta, anzi si trattava naturalmente del governo di Mario Draghi, al quale si era opposta solo la destra della Meloni appoggiandone però alla fine, ed ereditandone quasi paradossalmente, la politica estera. Cioè, la parte più importante e visibile, cresciuta col prolungamento della guerra in Ucraina e con la sopraggiunta guerra di Gaza. E ciò senza che, vinte le elezioni anticipate nel 2022, la Meloni abbia poi perduto consensi, diversamente dalle emorragie continue subite da un Salvini entrato per questo in fibrillazione acuta, a dir poco. Tutti, dicevo, stiamo lì a misurare le distanze all’interno del centrodestra fra Meloni e Salvini, o viceversa, in qualche modo speculari a quelle fra la segretaria del Pd Elly Schlein e il presidente del MoVimento 5 Stelle Giuseppe Conte nel campo di controversa ampiezza o lunghezza.

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Eppure sarebbe il caso che cominciassimo a misurare le distanze, forse meno visibili ma non meno significative, in corso quanto meno di maturazione fra la Meloni e i forzisti del solo apparentemente tranquillo, o meno agitato, Antonio Tajani, l’altro vice presidente del Consiglio. Al quale la figlia del compianto Silvio Berlusconi, Marina, ha involontariamente – spero – creato qualche grattacapo politico diffondendo con un libro di Paolo Del Debbio quattro paginette inedite del padre, scritte a mano quasi in punta di morte per ribadire, rafforzare, aggiornare e quant’altro la natura del partito di cui nessun altro dopo di lui sarà il presidente: Forza Italia, naturalmente.

Esce da quelle paginette, la cui stesura è stata raccontata da Marina quasi con le lacrime agli occhi, un partito certamente garantista come la sinistra probabilmente non tornerà mai ad essere, se lo è mai stata, ma competitiva con essa sui terreni della pace, del superamento dei confini, degli aiuti ai bisognosi ed altro ancora. La rinata Unità diretta da Piero Sansonetti ha presentato “il testamento di Berlusconi” come “un manifesto anti-sovranista”, anzi come ”L’Anti Giorgia”, in nero, e “Il J’accuse del Cav”, in rosso.

Ma è l’Unità, direte. Certo, è il giornale  che fu del Pci, ma nello stesso giorno sul Foglio il vice presidente forzista della Camera Giorgio Mulè si è richiamato pure lui a Berlusconi per bacchettare gli amici di partito per niente garantisti scatenatisi come dei meloniani qualsiasi di origini giustizialiste contro la Bari da mafia, diciamo così, del governatore pugliese Michele Emiliano e del sindaco Antonio Decaro.

– Leggi qui tutti i Graffi di Damato

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