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Lo spreco (tutto italiano) di Mario Draghi. I graffi di Damato

I graffi di Francesco Damato sui rapporti tra Mario Draghi ed il Governo italiano

Per capire come sia ridotta -male- la politica italiana alle prese con una crisi economica e sociale che fa tremare le vene ai polsi della pur solida ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, prefetto di lungo corso, potrebbe bastare l’agenda di un uomo non certamente comune come l’ex presidente della Banca Centrale Europea, ex governatore della Banca d’Italia, ex dirigente del Ministero dell’Economia, una volta noto come dicastero del Tesoro, e sul punto di essere chiamato, dopo la sua esperienza di lavoro a Francoforte, addirittura negli Stati Uniti. Il cui presidente Donald Trump fu tentato di farsi consigliare da lui nella gestione della finanza americana, pur avendolo avuto, o proprio per averlo avuto, come controparte  nei rapporti  a tensione alternata, o fissa, con l’Unione Europea.

Draghi, che dispone ancora di un ufficio di cortesia a Palazzo Koch per avervi lavorato a lungo al massimo livello, fu osservato in primavera da molti degli altri invitati alle considerazioni finali del governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco come un personaggio non so, francamente, se più scomodo o pericoloso.

Il presidente del Consiglio, prima ancora di tenerlo lontano dagli enfatici Stati Generali a Villa Pampihili, si era occupato di lui con qualche frase allusiva in interviste per vantare sì un buon rapporto di amicizia “personale”, ma soprattutto per assicurare di non saperlo disponibile, o comunque smanioso di succedergli a Palazzo Chigi. Dove alcuni, fra i quali il leghista Giancarlo Giorgetti e lo stesso Matteo Salvini, avevano mostrato o mostravano ancora di vederlo per un tipo di governo, diciamo così, non ordinario.

Abbiamo appena scoperto, per anticipazioni di agenzia, non per iniziativa o volontà degli interessati, che a fine giugno Draghi è stato consultato come “analista” da Luigi Di Maio. Che è il ministro  degli Esteri, d’accordo, e come tale interessato o sfiorato, come vi pare, dal problema del ricorso al fondo europeo salva-Stati, considerato da molti grillini come una trappola infernale per l’Italia, destinata con quei soldi non a munirsi di ospedali più numerosi e attrezzati ma di finirvi dentro per gli ultimi giorni di vita. Ma Di Maio conta ormai nel suo Movimento, quello delle 5 Stelle, senza volergli con questo mancare di rispetto, come il due di coppe quando il gioco di briscola è a bastoni. Non è più capo del quasi partito che lo incoronò col solito sistema digitale, non è più capo della delegazione al governo e deve guardarsi le spalle, per quando i giochi potranno riaprirsi, da quel furbacchione amico di tante scampagnate che è Alessandro Di Battista.

Di Maio, come hanno precisato i suoi collaboratori, non ha offerto neppure una cena, o un pranzo, all'”analista” -ripeto- Draghi, chiamato invece da Papa Francesco, che non mi sembra francamente uno sprovveduto, ad entrare nella Pontificia Accademia delle Scienze Sociali.

Con questi spettacoli sullo fondo, la cronaca politica italiana è alle prese con la decisione di Giuseppe Conte, tra le paratie di Venezia e le sue visite in Europa, di blindarsi a Palazzo Chigi con una proroga dello stato di emergenza virale, previo un “passaggio” generosamente concesso al Parlamento. E con i soliti messaggi quotidiani e trasversali, nella maggioranza giallorossa, di stanchezza, di divisioni e di allarme, a cominciare da quelli del dichiaratamente “rompiscatole” renziano Davide Faraone. Buona fortuna, si fa per dire.

TUTTI I GRAFFI DI DAMATO. 

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