Flop referendum: scatta l’autocritica nel PD. L’ala dei riformisti critica la linea del partito sul Jobs Act e lancia la strategia futura. Renzi, intanto, tende l’orecchio
A referendum chiuso e incassata la sostanziale sconfitta, nel Pd scatta l’ora dell’autocritica. Nel complesso, sono poche le sorprese: se mancare il quorum era lo scenario dato per certo da tutti, osservatori e coinvolti nella partita, altrettanto dicasi per l’ordine sparso con cui i dem si sono presentati al voto, con la fronda riformista a far da scudo al Jobs Act – e alla renziana memoria.
Né ci si può sorprendere di fronte al pressing nei confronti della segretaria Schlein, colpevole, a loro dire, di aver appiattito il partito sulle posizioni della Cgil e condotto una battaglia di retrovia.
L’ORA DELL’AUTOCRITICA
A parlare sono i volti noti della movimentata ala interna che tenta di tirare la giacchetta alla segretaria verso il centro, e non solo sul referendum, come s’è visto in occasione della doppia manifestazione per Gaza.
Impietosa l’analisi dell’ex sindaco di Bergamo Giorgio Gori, che invita il PD a uscire dalle battaglie identitarie.
Un autogol prevedibile, che andava evitato.
Il PD si è infilato in una battaglia ideologica, anacronistica, troppo tecnica e quasi incomprensibile ai più, a traino della Cgil e contro la sua stessa storia.
Una battaglia controproducente, che ha diviso il fronte progressista e il…— Giorgio Gori (@giorgio_gori) June 9, 2025
Tra le voci più critiche dei quesiti sul Jobs Act anche Pina Picierno. Intervistata da Il Foglio, la vicepresidente dell’Europarlamento affonda il colpo: nella sua analisi il referendum si è concluso in un gigantesco «regalo a Giorgia Meloni», mentre il Pd dava l’immagine di un partito «in preda a polarizzazioni identitarie, intrappolata in una bolla di tifoserie avversarie».
Anche Lia Quartapelle ribadisce l’anacronismo dei quesiti sul lavoro, chiedendo alla propria comunità politica di elaborare l’errore, frutto di un calcolo tattico errato, in cui «è rimasto impigliato anche il quesito sulla cittadinanza, inserito in corsa. Quello era l’unico quesito referendario che poneva una grande questione nazionale (chi e come può diventare italiano)».
ESSERE ALTERNATIVA DI GOVERNO
Al Corriere parla invece Elisabetta Gualmini, che chiede «una discussione interna, il minimo sarebbe quello» per costruire un’alternativa concreta di governo. Per l’europarlamentare il problema è «questa rinnovata cinghia di trasmissione con un sindacato. Non solo perché così abbiamo contribuito a rompere l’unità sindacale, ma anche perché è una cosa che non si fa con nessun sindacato».
Interpellato da Open, Filippo Sensi sintetizza: «la gente ha detto chiaramente: “Quello che ci avete proposto non ci interessa”». Il punto attorno a cui ruota il ragionamento dei cosiddetti riformisti dem è presentarsi come alternativa di governo, parlare a tutti e non incistarsi troppo nel campo largo con Avs e M5s: «Il tema è: vogliamo andare noi al governo? Un governo che parli a tutti quanti? Questo mi preoccupa. Siamo in grado di costruire un’alternativa che coinvolga tutti i partiti di minoranza? E dico, tutti, non soltanto una parte. E poi, siamo in grado di avere un’elaborazione all’altezza di quello che siamo? Siamo una grande forza di governo, quindi perché farsi bastare un’alleanza a tre? O perché limitarci ai quesiti posti dalla Cgil, quando c’è un mondo intorno da rappresentare?».
NESSUN CONGRESSO. PER IL MOMENTO
Ma alla fine prevale la tendenza alla ricomposizione: non è (ancora?) il momento di chiedere la testa di Schlein.
Lo stesso Sensi esclude la necessità di un congresso, Picierno ci tiene a rimarcare che non sono in corso atti di sfiducia nei confronti della segretaria, ma lancia un monito: «lealtà non vuol dire silenziare le divergenze».
Ci pensa poi il presidente del Pd Bonaccini, riferimento, suo malgrado, dell’ala riformista, a ricompore i pezzi senza infierire. «Si è mancato l’obiettivo e quando oltre due terzi degli italiani non rispondono è necessario riflettere», ma frena gli entusiasmi della destra, confermando che «il lavoro e i diritti dovranno essere il primo pilastro del nuovo centrosinistra».
LA DIFESA DI SCHLEIN
Dal canto suo Schlein s’era preventivamente schierata a difesa del possibile 30% e oggi rivendica di aver portato alle urne più elettori di quanti non abbiano votato per il partito di Giorgia Meloni alle politiche.
Difesa di circostanza, certo, ma anche nel merito: «le stesse posizioni sul lavoro erano nella sua piattaforma congressuale quando, oltre due anni fa, è stata scelta alla guida del partito, come avrebbe potuto, ragionano al Nazareno, tirarsi indietro e non sostenerle?» ragiona Francesca Schianchi su La Stampa.
RENZI GONGOLA
Chi gongola per davvero a sinistra è Renzi: scelto come frontman del “no”, vista la diserzione nel merito del referendum del centrodestra, ha sfruttato la circostanza per ricordare tutti i meriti del Jobs Act e misurare quanto la sua voce risuoni ancora dentro al Pd.
Pur tenendo Meloni al centro del suo mirino, intervistato da la Repubblica, il fu rottamatore frena la corsa del blocco Pd, M5S e Avs con in testa un’«idea di sinistra dura» e ricorda che «senza un’ala blairiana la sinistra non vince: cacciare i riformisti dalla coalizione e chiudersi nell’ideologia fa perdere».