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Non è tanto strano il caso Striano
I Graffi di Damato sui guasti dei segreti nella cassetta delle lettere dei giornali
Capisco il disagio, la delusione, la preoccupazione, la rabbia e altro ancora avvertiti da Tiziana Maiolo di fronte all’ennesimo caso di dossieraggio, o simile, esploso come una bomba sull’informazione compromettendone libertà e autonomia.
Da espediente difensivo, come l’ho usato anche io in due occasioni in cui ho subìto indagini per diffusione di notizie riservate o persino coperte da segreto di Stato, procurandomi in questo caso anche l’arresto obbligatorio di una decina di giorni, per quanto a casa; da espediente difensivo, ripeto, usato quando si cade sotto indagini o processo per coprire doverosamente le fonti dell’informazione sembra diventata realtà quella dei giornali e giornalisti raggiunti causalmente, per posta, da notizie più o meno clamorose, riguardanti persone, partiti, altre organizzazioni ed eventi.
Per posta dissi agli inquirenti negli anni Settanta, quando lavoravo al Giornale d’Italia, di avere ricevuto una copia del famoso rapporto del prefetto Libero Mazza su come andavano organizzandosi a Milano gli estremisti e sulla necessità di predisporre interventi straordinari, negatigli invece dall’allora ministro dell’Interno Franco Restivo. Che teneva reazioni troppo forti della sinistra, peraltro in una stagione in cui la Dc aveva varato una edizione “più incisiva e coraggiosa” del centrosinistra. Così la definì Mariano Rumor subentrando a Palazzo Chigi ad Aldo Moro dopo la pausa estiva di un governo di Giovanni Leone.
Il rapporto, documentatissimo, mi era stato dato, in verità, da Oscar Luigi Scalfaro, collega di partito e di corrente di Restivo, entrambi scelbiani, ma ancor più estimatore di Mazza. Lo pubblicai, naturalmente col consenso del direttore Alberto Giovannini, che coprì la mia versione agli inquirenti, condividendo appieno le preoccupazioni di Scalfaro. A contribuire all’archiviazione delle indagini probabilmente contribuì anche l’evidenza dei fatti, cioè dei disordini, seguiti al mancato ascolto del prefetto di Milano da parte del governo.
Per posta nel 1983 dissi agli inquirenti, che avevano già perquisito la redazione romana e la mia abitazione, di avere ricevuto anche un rapporto sulle connessioni internazionali del terrorismo trasmesso dalla Presidenza del Consiglio alla prima commissione parlamentare d’inchiesta su delitto Moro. E da me fatto pubblicare sulla Nazione riproducendo anche in fotografia perché nessuno potesse smentire.
Due anni dopo, ostinandomi a coprire la fonte parlamentare dalla quale avevo avuto il documento, mi rimediai un ordine di arresto intimidatorio, coperto dall’obbligatorietà della cattura per il reato contestatomi di violazione del segreto di Stato. Me la cavai col proscioglimento in istruttoria, senza arrivare al rinvio a giudizio, perché il presidente del Consiglio, che era allora Bettino Craxi, preposto per legge a dire se una notizia è o non è da coprire col segreto di Stato, scrisse alla Procura Generale della Corte d’Appello di Roma per avvertire – chiarendo meglio una lettera del predecessore Amintore Fanfani – che il documento aveva perso la sua natura originaria di segretezza una volta arrivato ad una commissione di una cinquantina di parlamentari di ogni colore. E infatti, a lavori conclusi della commissione, quel documento fu poi pubblicato fra gli allegati di una delle relazioni di minoranza.
Pubblicai il documento, trasmesso al Parlamento da Palazzo Chigi ma redatto dai servizi segreti, non solo trovandolo d’interesse pubblico, come gli addestramenti dei brigatisti rossi nei paesi dell’est, ma condividendo la protesta del parlamentare che me l’aveva dato contro la decisione della presidenza della commissione di chiuderlo in cassaforte e di non farlo neppure discutere per l’imminenza dello scioglimento delle Camere. E per le ripercussioni che avrebbe potuto provocare nella campagna elettorale ai danni della sinistra.
Accade adesso che giornali e giornalisti accedano a notizie riservate non tramite fonti politiche, condividendone quindi le valutazioni e le finalità comunicative, ma direttamente da chi nei servizi segreti, o simili, come nella Procura nazionale antimafia finita sulle prime pagine in questi giorni, se le procura illegalmente e persino le crea. E così finendo i giornali e i giornalisti, ripeto, per diventare davvero sostanziali buche della posta.
Nel caos creato da questo intrigo dalle dimensioni davvero preoccupanti denunciate in sede parlamentare dal capo della Procura nazionale antimafia e dal capo della Procura di Perugia, Tiziana Maiolo ha paradossalmente reagito proponendo sul Dubbio l’abolizione dell’Ordine dei Giornalisti, sostanzialmente appartatosi, e della Procura nazionale antimafia, dove tutto è avvenuto sfuggendo a lungo ai controlli.
Se è un paradosso, va bene. Se non lo è, non va bene per niente. Senza il nostro Ordine professionale, per quanto lento, distratto, parziale, come preferite, noi giornalisti, cara Tiziana, saremmo più deboli. E senza la Procura nazionale antimafia tanto voluta da Giovanni Falcone, e ancor più senza servizi segreti lo Stato sarebbe meno sicuro, cioè più debole anch’esso.
Il problema, o la soluzione, se preferite, è che tutti facciano meglio il proprio lavoro: con più accortezza, più onestà. Anche noi giornalisti, o noi soprattutto, che spesso ci mettiamo in concorrenza con gli inquirenti per indagare e con i giudici per giudicare, invocando la libertà di stampa, scusatemi, come i bambini la marmellata. Una libertà, quella di stampa, che non è libertà anche di diffamare e sputtanare aggrappandoci alle incursioni telematiche degli addetti ai lavori o alle intercettazioni, e ai loro abusi, come a salvagenti.
Come i magistrati facendo male il loro lavoro, così noi giornalisti facendo male il nostro perdiamo credibilità e copie, per chi ancora le stampa e riesce a camparne. Non parliamo poi della credibilità dell’informazione digitale o social per non doverci abbattere di più.