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Perché il Parlamento sbuffa sul maxi-ritardamento

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I Graffi di Damato

Di scuse, per quanto reclamate implicitamente dalla stessa presidente del Senato con un richiamo al governo all’obbligo di “un percorso più regolare” sulla strada della manovra finanziaria e del bilancio, piena di buche più delle strade romane, neppure a parlarne. Dopo l’ennesimo rinvio del “maxiemendamento” sostitutivo del bilancio già approvato alla Camera, e inutilmente discusso nell’aula di Palazzo Madama, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha saputo esprimere solo un incolpevole “dispiacere”. Incolpevole, perché dipendente, secondo lui, solo dalla complessità e multilateralità del negoziato con la Commissione Europea, di cui si è assunto orgogliosamente il merito, forse incoraggiato anche dal generoso apprezzamento ricevuto pubblicamente dal capo dello Stato al Quirinale in occasione dello scambio degli auguri di fine anno.

SE FOSSE STATO PER CONTE…

Lui, Conte, l’avvocato “del popolo” e della sua manovra, oltre che capo del governo gialloverde uscito dalle urne elettorali del 4 marzo scorso come un coniglio dal cappello a cilindro di un prestigiatore, avrebbe voluto terminare ben prima la trattativa con la commissione europea per evitare la procedura d’infrazione innestata dalla bocciatura dei conti sventolati a settembre con la bandiera del deficit al 2,4 per cento del prodotto interno lordo. Ma la durata delle trattative “dipende dalle due parti, non da me”, ha spiegato con disinvoltura il presidente del Consiglio. Anzi, con grande disinvoltura, perché i ritardi più vistosi e umilianti rovesciatisi sul Senato, fra i sarcastici giudizi di Mario Monti, le lacrime di stupore e di protesta di Emma Bonino, dichiaratamente condivise dopo l’intervento della storica esponente del mondo radicale dal presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano, le clamorose proteste di altri parlamentari, voltatisi dall’altra parte rispetto ai banchi del governo, sono arrivati dopo la conclusione del negoziato a e con Bruxelles.

IL MAXIRITARDAMENTO

Il maxiemendamento – o maxiritardamento, suggerito dagli avvenimenti al vignettista della Gazzetta del Mezzogiorno – si è impantanato a Roma, fra gli uffici del Ministero dell’Economia e della Presidenza del Consiglio, man mano che si riaprivano contrasti o se ne accendevano di nuovi all’interno della maggioranza. E ciò nella definizione della quantità e della qualità politica delle misure da adottare in conformità con i tagli alle spese concordate con i commissari europei per ridurre il deficit dal 2,4 per cento, festeggiato tre mesi fa dal vice presidente grillino del Consiglio Luigi Di Maio sul balcone di palazzo Chigi, e il 2,04 per cento strappato da Conte. Poi dicono che lo zero non vale niente: addirittura meno di quel proverbiale punto per il quale Martin perse la cappa.

Il marasma nella maggioranza è moltiplicato e al tempo stesso contraddetto dai toni trionfalistici con i quali grillini e leghisti si attribuiscono vittorie e meriti, tutti da verificare quando dalle parole e dai numeri si passerà davvero ai fatti, che gli elettori potranno verificare nelle proprie tasche.

 

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