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Perché Grillo aspetta Godot?
I Graffi di Damato
Sempre a mezza strada, furbescamente, fra il carattere personale del suo blog e il ruolo che ha voluto conservare di garante, “elevato” e quant’altro del suo movimento, ora al governo dell’Italia insieme con la Lega, Beppe Grillo ha dato una rappresentazione drammatica della politica e, più in generale, del Paese. Di cui è francamente impossibile che egli possa scaricare tutte o le maggiori responsabilità sulle opposizioni, di certo malmesse. Non sono loro di certo il Godot che, ispirato da Samuel Beckett, il comico genovese aspetta inutilmente come un barbone su una strada, come in teatro, o nella maschera indossata dietro la scrivania di casa.
Col pretesto di parlare di tecnologia e futuro Grillo ad un certo punto ha detto, testualmente: “Arriveremo a non capire più chi siamo, dove siamo e cosa facciamo: è esattamente quello che sento io oggi della politica italiana. Non sappiamo dove andiamo, cosa facciamo e cosa stiamo pensando. Aspettiamo questo Godot”. E poi ancora, in un moto di ulteriore furbizia e comicità, o di comica furbizia: “Non ho capito cosa ho detto, ma è lo stesso”.
Ebbene, più caustico commento Grillo non poteva fare da casa sua, magari appena dopo avere parlato al telefono con qualcuno dei “portavoce” a Roma e dintorni, allo spettacolo del governo e della maggioranza fra aule e commissioni parlamentari, riunioni a Palazzo Chigi, dichiarazioni, interviste e indiscrezioni. E fra intrecci di decimali, numeri, numerini, date e quant’altro Schermata 2018-12-06 alle 08.36.44.jpgsulla manovra finanziaria varata sfidando mezzo mondo, ma ora in via di progressivo e confuso ridimensionamento per cercare di evitare la costosa procedura europea d’infrazione. Che il presidente del Consiglio in persona aveva preso sotto gamba, dicendo di potervi “convivere”, prima di scoprirne la insostenibilità col sopraggiungere di un processo di recessione economica. E dell’allarme scattato in tutte le componenti produttive del Paese.
Munito di “procura” dai due vice presidenti del Consiglio, come egli stesso ha tenuto a definire la delega attribuitagli invece dai giornali riferendo del comunicato congiunto di Luigi Di Maio e Matteo Salvini a suo favore, il professore Conte sta gestendo una sofferta e al tempo stesso penosa retromarcia. Che è poi nella direzione indicata o voluta, prima ancora che dalla commissione europea con la bocciatura dei conti, dal ministro dell’Economia Giovanni Tria fra le proteste, e le minacce di epurazione, o qualcosa del genere, rivolte ai suoi principali collaboratori, e alti funzionari dello Stato, levatesi addirittura dal portavoce del presidente del Consiglio.
Se fossi un editore, mi affretterei a offrire un contratto d’oro -ma d’oro davvero, non quello falso delle pensioni sotto taglio non appena superano i 90 mila euro lordi l’anno- al professore Tria per acquisire i suoi diari come ministro alla fine di questa sconvolgente esperienza che gli è capitato di vivere. E che probabilmente egli avrebbe già interrotto, anziché smentire o lasciare smentire da altri le ricorrenti voci di dimissioni, se non fosse stato trattenuto personalmente dal presidente della Repubblica, convinto forse non a torto di non poter evitare in tal caso una crisi di governo devastante prima dell’approvazione del bilancio.