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Perché il vero obiettivo del ritorno di D’Alema è Draghi, non Renzi

I Graffi di Francesco Damato

Per favore, non facciamoci distrarre dai dettagli, per quanto rumorosi, come lo scontro fra Massimo D’Alema ed Enrico Letta esploso mentre il primo preparava il ritorno nel Pd con i suoi compagni “scissionisti” del 2017 e il secondo assecondava dietro le quinte l’operazione. Vediamo la sostanza vera del pesce d’aprile fuori stagione di D’Alema.

L’obiettivo di “Baffino” nella conversazione telematica con gli amici della piccola formazione politica nata uscendo cinque anni fa dal Pd ancora nelle mani di un Renzi pur costretto ad abbandonare Palazzo Chigi, non è stato lo stesso Renzi, indicato come “il male” da cui sarebbe “guarito” il partito, che ora potrebbe ricomporsi sotto la guida di un imbarazzato Enrico Letta. Il quale non si sente guarito di niente, per quanto abbia avuto ragioni di risentimento anche personale con chi -Renzi, appunto- gli soffiò la guida del governo nel 2084.

L’obiettivo di D’Alema, in questo passaggio della politica italiana dominato dalla cosiddetta corsa al Quirinale, è stato ed è Mario Draghi. Di cui non piace a “Baffino” né l’idea che succeda a Sergio Mattarella né o soprattutto che egli si scelga per la successione a Palazzo Chigi il “funzionario” che, facendo il governo quasi un anno fa, con astuta preveggenza nominò superministro dell’ Economia. Si tratta naturalmente di Daniele Franco. Questa -ha detto D’Alema- “non è democrazia”. Punto e basta.

Nell’offensiva contro Draghi -altra notizia nella notizia, come in una matrioska- D’Alema si ritrova con Silvio Berlusconi come nel 1997, quando fu aiutato dal fondatore e leader del centrodestra ad assumere la presidenza della commissione bicamerale per le riforme istituzionali in funzione di contenimento dell’allora presidente del Consiglio Romano Prodi. Che pure nel 1996 aveva sconfitto Berlusconi nelle elezioni politiche sfatandone la invincibilità attribuitagli nel 1994 per l’umiliazione inferta alla sinistra raccolta attorno ad Achille Occhetto come in una “gioiosa macchina da guerra”.

Quella delle convergenze parallele di memoria morotea fra Berlusconi e D’Alema nel 1997 non fu un’operazione velleitaria perché, in effetti, un anno e mezzo dopo Prodi già non era più presidente del Consiglio, sostituito appunto da D’Alema. Che due anni ancora dopo, nel 1999, per quanto anch’egli già costretto a lasciare Palazzo Chigi, avrebbe potuto diventare presidente della Repubblica con i voti parlamentari del centrodestra, o almeno di Forza Italia, solo se Berlusconi avesse avuto il coraggio di seguire sino in fondo i consigli del suo ex ministro dei rapporti col Parlamento Giuliano Ferrara, proveniente familiarmente dal Pci.

Ma Berlusconi non se la sentì. Si tirò indietro all’ultimo momento con una telefonata che D’Alema gli chiese inutilmente di rendere pubblica per smentire lo spettacolo di “Dalemoni” che raccontava sull’Espresso, binocolo a tracolla, il buon Giampaolo Pansa. Siamo troppo avversari elettoralmente perché io possa votarti al Quirinale, disse praticamente Berlusconi a “Baffino”. E infatti al Colle salì Carlo Azeglio Ciampi.

Ora “Baffino” ha detto contro Draghi al Quirinale ciò che forse vorrebbe dire anche Berlusconi ma non può per non smentire stima e amicizia ostentate anche in una celebre fotografia dell’anno scorso, nei giorni in cui il presidente del Consiglio incaricato incontrava le delegazioni dei partiti per formare il suo governo. Di Draghi, proprio in virtù di quel rapporto, ora Berlusconi può solo dire, come dice, correndo ostinatamente per il Quirinale anche in concorrenza con lui, che è troppo bravo e necessario a Palazzo Chigi per trasferirsi sul Colle.

Ecco: questa è la sostanza dell’uscita di D’Alema ancora una volta convergente con Berlusconi, in una riedizione del Dalemoni del compianto Giampaolo Pansa. I due celebrano in qualche modo le nozze d’argento, a 25 anni dal 1997.

TUTTI I GRAFFI DI FRANCESCO DAMATO

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