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Perché la nomina di Marcello Viola alla Procura della Repubblica di Milano è rivoluzionaria

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I Graffi di Damato

Scherzi a parte, ma fino ad un certo punto, ci voleva dunque una guerra, nella quale siamo in qualche modo coinvolti aiutando in armi e soccorsi l’Ucraina aggredita dalla Russia, senza per questo doverci sentire fuori dalla Costituzione, come ci ha appena assicurato il presidente della Corte Costituzionale Giuliano Amato; ci voleva dunque una guerra, dicevo, perché il Consiglio Superiore di turno della Magistratura trovasse il coraggio, o scoprisse l’emergenza, come preferite, di scegliere al di fuori del perimetro locale il nuovo capo della Procura della Repubblica di Milano. Che è il siciliano Marcello Viola, proveniente dalla Procura Generale della Corte d’Appello di Firenze, e si è guadagnato subito sui giornali titoli come “conquista Milano”, sul Dubbio, o “espugna il fortino di Milano”, sul Riformista: entrambi giornali particolarmente sensibili ai temi della giustizia.

Viola, che ha già il vantaggio di non chiamarsi Rosso, il colore a lungo usato, a torto o a ragione, per rappresentare l’orientamento prevalente nella Procura ambrosiana dai tempi di “Mani pulite”, è stato nominato nella prospettiva dichiarata, in particolare, dal consigliere superiore e magistrato famosissimo Nino Di Matteo, di una “discontinuità” nella conduzione di quegli uffici giudiziari. Che sono stati considerati o scambiati, sempre come preferite, come l’avamposto nella lotta alla corruzione e ai partiti della cosiddetta prima Repubblica, praticamente ghigliottinati per le loro pratiche illecite di finanziamento.

Ma poi sono caduti nelle grinfie di quegli uffici, sia pure in modo meno rovinoso, anche i partiti delle successive edizioni mediatiche o politiche della Repubblica, pur a Costituzione sostanzialmente invariata, se non nel forte ridimensionato dell’immunità parlamentare e in un pasticciato aumento delle autonomie regionali: tanto pasticciato che nessuno si riconosce nel nuovo titolo quinto, relativo appunto alla materia, neppure quelli che una ventina d’anni fa l’approvarono a tamburo battente, sulle sponde del cosiddetto centrosinistra, nella inutile speranza che ciò servisse ad evitare la ripresa dell’alleanza interrottasi fra Silvio Berlusconi e Umberto Rossi nel cosiddetto centrodestra.

E’ troppo presto naturalmente per formulare previsioni sulla gestione viola della Procura milanese, chiamiamola così traducendo in colore il nome del nuovo titolare di quegli uffici che hanno davvero scritto anche la storia politica degli ultimi trent’anni dell’Italia provocando, anticipando, intercettando e via dicendo crisi di governo e persino di sistema istituzionale. Nel 1992, per esempio, l’allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro estese la pratica delle consultazioni per la formazione del governo proprio al capo della Procura di Milano. Che era Francesco Saverio Borelli, delle cui valutazioni, anticipazioni o solo umori Scalfaro si avvalse per rinunciare alla nomina di Bettino Craxi a presidente del Consiglio di fatto già proposta dalla Dc guidata da Arnaldo Forlani. A Palazzo Chigi vi andò, o vi tornò Giuliano Amato, compagno di partito di Craxi e suo sottosegretario alla Presidenza del Consiglio fra il 1983 e il 1987.

La “discontinuità” di cui ha parlato Nino Di Matteo commentando la nomina del nuovo capo della Procura di Milano dovrebbe significare o concretizzarsi anche nel ristabilimento della normalità nella tratta giudiziaria Firenze- Milano, chiamiamola così. Da Firenze fu mandato nel 1991 a Milano, a guidare quella volta la Procura Generale della Corte d’Appello, il povero Giulio Catelani: povero perché lo stesso Borrelli, che da capo della Procura di primo grado si era candidato alla promozione, e altri magistrati gli resero la vita tanto difficile da farlo andare in pensione anticipatamente quattro anni dopo, in un clima a dir poco tossico.

 

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