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Perché l’Italia è difficile come diceva Piero Angela

Elezioni Italia

I graffi di Damato

C’è proprio tutto, anche contro la scomposta campagna elettorale avvertita negli ultimi giorni della sua lunghissima vita, in quella definizione dell’Italia “difficile Paese” nel messaggio di commiato tanto orgoglioso quanto toccante lasciato da Piero Angela prima del “buon viaggio” auguratogli con le lacrime negli occhi dal figlio Alberto. Un viaggio che meglio non poteva essere rappresentato nella vignetta di Mauro Biani su Repubblica, in cui Piero con lo zaino sulle spalle percorre il ponte dell’infinito.

Difficile Paese davvero quello in cui si interrompe il lavoro di un governo di emergenza come quello guidato dall’italiano più autorevole nel mondo – con tutto il rispetto meritato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che d’altronde lo nominò presidente del Consiglio sorprendendo il partito ancora più rappresentato nel Parlamento – per avventurarsi tutti, ma proprio tutti, in una campagna elettorale che più scombinata e deludente non avrebbe potuto rivelarsi. E che per fortuna -unica consolazione- è stata accorciata al massimo sia da Mattarella sia da Draghi per limitarne i prevedibili danni.

E’ una campagna elettorale così piena di promesse sproporzionate – a destra ma anche a sinistra, e si spera non anche al centro, visto che l’omonimo polo è appena nato – che il pragmatico presidente del Consiglio le ha liquidato come “sogni” sarcasticamente augurando ai partiti dei ministri del suo governo di realizzarli. Nessuno di essi ha naturalmente avuto il coraggio o l’ironia- come preferite- di ringraziarlo. Già, perché i partiti mancano anche di ironia, per quanto i loro protagonisti e attori producano battute sprecandole persino nei loro simboli.

E’ il caso di quel 2050 stampato in rosso -l’ultimo colore preferito dal suo presidente Giuseppe Conte, e probabilmente anche dal “garante” Beppe Grillo- nelle insegne del MoVimento 5 Stelle. O delle loro polveri, viste le condizioni anche di isolamento politico in cui esso si trova dopo una legislatura interamente vissuta al governo, con qualsiasi tipo di maggioranza, nella presunzione di una “centralità” non proprio apprezzata dagli elettori. I quali in tutte le occasioni che hanno avuto di votare dal 2018 in poi o hanno ingrossato e ingrassato l’astensionismo, facendolo diventare il primo, vero partito d’Italia, o hanno contribuito alla crescita degli avversari o concorrenti dei grillini. E io, a 80 anni e più di età, e con me tanti altri anziani o vecchi, come preferite, dovrei aspettare il 2050 sognato o promesso da Conte e amici, chissà quanto destinati poi ad arrivarvi essi stessi. E ancor più pazienza e fiducia dovrebbero avere i giovani accontentandosi del cosiddetto reddito di cittadinanza – guai a chi lo tocca!- non più propedeutico ad un lavoro ma semplicemente e distruttivamente sostitutivo.

Come se non bastassero quelli già prevedibili, direi scontati, si sono aggiunti in questa disgraziata campagna elettorale gli inconvenienti improvvisati, come la gaffe di Silvio Berlusconi – con quel presidenzialismo contrapposto, volente o volente, ad un presidente della Repubblica che il suo partito ha peraltro contribuito a rieleggere, pur tentando in un primo momento la scalata al Quirinale- e l’abuso che ne stanno facendo -va detto anche questo- gli avversari demonizzando col Cavaliere anche la riforma presidenzialista. Di cui Marco Travaglio, per esempio, sul Fatto Quotidiano ha attribuito la paternità al “maestro Gelli”, prima ancora che al “compare Craxi” e alla sua “pochette Amato”, ora presidente della Corte Costituzionale, dimenticando il presidenzialismo sostenuto all’Assemblea Costituente dall’antifascista Piero Calamandrei.

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