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Politici e giornalisti? Fratelli coltelli. Cronaca e storia

rassegna giornali

I graffi di Damato

Non per difendere i grillini, per carità, ma solo per sbertucciare la loro presunta rivoluzione anche nei rapporti con i giornalisti e, più in generale, col mondo dell’informazione, vorrei ricordare che a darci dei “pennivendoli”, senza aspettare il loro arrivo, che certamente non poteva neppure immaginare, fu Ugo La Malfa dal palco di un congresso del suo partito: il Pri. Che fu per molti anni, a dispetto della sua consistenza elettorale, l’ago della bilancia di governi e maggioranze.

I PRIMI PENNIVENDOLI

Pennivendoli e anche miserabbili, con la doppia b, ci gridò addosso il segretario del Pri reagendo agli attacchi, ma anche alle ironie, che si era guadagnato destituendo in tronco il collegio dei probiviri della formazione dell’edera presieduto da Pasquale Curatola. Esso aveva predisposto un documento critico sugli esponenti siciliani di cui più si fidava il sicilianissimo La Malfa, a cominciare da Aristide Gunnella.

Poco mancò che lo stesso La Malfa nel 1975, vice presidente del Consiglio in un bicolore Dc-Pri guidato da Aldo Moro, non mi schiaffeggiasse nel cosiddetto Transatlantico di Montecitorio per avere rivelato sul Giornale diretto dal comune amico Indro Montanelli un suo incontro riservato con i corrispondenti dei giornali esteri a Roma. In quella occasione egli aveva espresso la convinzione che fosse “ineluttabile” il cosiddetto compromesso storico fra democristiani e comunisti, poi realizzatosi nella versione ridotta di un monocolore scudocrociato sostenuto esternamente dal Pci di Enrico Berlinguer.

Nella foga della protesta La Malfa arrivò a minacciare un intervento su Montanelli perché fossi licenziato, e “in tronco”. A Montanelli invece egli telefonò il giorno dopo per scusarsi dello scontro avuto con me. Altri anni, altri uomini.

QUANDO VOLAVANO SCHIAFFI IN TRANSATLANTICO

Di schiaffi invece ne sono volati davvero nella buvette e nei corridoi di Montecitorio fra deputati e giornalisti. Memorabili, a loro modo, furono quelli scambiati fra il braccio destro di Giulio Andreotti, Franco Evangelisti, e Guido Quaranta, ora fra i più anziani dell’associazione della stampa parlamentare. Lui stesso li ha evocati in una delle quindici interviste di testimonianza degli ultimi settant’anni e più di politica raccolte da Giorgio Giovannetti per i “Passi perduti- Storie dal Transatlantico”, freschi di stampa per i “Quaderni delle Istituzioni della Repubblica”, editi da G. Giappichelli. È un libro decisamente e meritoriamente controcorrente rispetto alla rottamazione del Parlamento prevista, o auspicata, dai grillini a vantaggio della democrazia “digitale”. Grazie alla quale Montecitorio e Palazzo Madama potrebbero diventare musei o alberghi, secondo i gusti o le convenienze, potendo i cittadini provvedere da casa, usando il computer, a fare leggi e a far nascere e morire i governi.

Di quegli schiaffi a Quaranta, chiamato per la sua impertinenza “la supposta” da Alfredo Covelli, penso che Evangelisti fosse stato poi costretto a scusarsi con Andreotti. Al quale il mio amico Guido stava simpatico per quell’abitudine che aveva di tallonare i politici con un blocchetto di carta in mano. “Che fai? Mi vuoi multare?”, gli chiedeva sornione proprio Andreotti nei suoi panni di turno di ministro, o capogruppo democristiano della Camera, o presidente del Consiglio.

Non ebbe il tempo invece di reagire ad uno schiaffo di Luigi Barzini, fresco di elezione a deputato liberale, il vecchio giornalista della Stampa Vittorio Statera, rimasto basito per l’affronto e costretto a raccogliere davanti alla porta dei gabinetti gli occhiali saltatigli dal naso.

Erano stati decisamente migliori i metodi usati contro lo stesso Statera da Alcide De Gasperi. Che, infastidito pure lui per l’insistenza con la quale il giornalista del quotidiano torinese cercava di sondarne progetti e opinioni, gli chiese una volta, davanti alla porta del suo ufficio di presidente del Consiglio, allora al Viminale: “Ma perché mi interroga sempre come un commissario di Polizia?”. E l’indimenticabile Aniello Coppola, dell’Unità, profittò subito della circostanza per chiedere a De Gasperi, che aveva appena scaricato i comunisti dal governo: “È una critica alla Polizia?”.

Sempre per La Stampa, toccò nel 1971 a Vittorio Gorresio scontrarsi, o subire l’assalto del presidente del Senato Amintore Fanfani. Che, non avendo gradito le cronache e i commenti del giornale torinese alla sua corsa al Quirinale, sviluppatasi in una serie di votazioni infruttuose per l’ostinazione di una parte dei deputati del suo partito, la Dc, a contrastarne la candidatura, apostrofò il pur anziano e autorevole giornalista nella buvette dandogli praticamente del servo di Gianni Agnelli. Che lesse dell’incidente sulla Stampa il giorno dopo, avendo Gorresio riferito puntualmente dell’accaduto. Ciò forse contribuì a suo modo al naufragio della già compromessa avventura dell’aretino. Nella votazione successiva a quell’episodio uno dei “franchi tiratori” della Dc si divertì a scrivere sulla scheda, dichiarata nulla sul banco della presidenza di Montecitorio da Sandro Pertini che l’aveva appena letta in silenzio: “Nano maledetto, non sarai mai eletto”.

SCHIAFFEGGIATO ANCHE UN GIOVANE TAJANI

Celebre è rimasto nella storia settantennale del Parlamento repubblicano anche lo schiaffo del solitamente impeccabile Alfredo Pazzaglia al giovane cronista politico del Giornale Antonio Tajani – sì, proprio lui, l’attuale presidente del Parlamento Europeo – che ne aveva scritto come di un pericolante capogruppo missino della Camera. E, ciò nonostante, impegnato dietro le quinte a fare le scarpe al segretario del partito Giorgio Almirante. Dal quale Pazzaglia aveva peraltro appena ricevuto una telefonata di amichevole solidarietà, apprendendo così dell’articolo che non aveva ancora visto.

“Mi è sfuggita la mano sinistra”, si scusò poi Pazzaglia col vice presidente della Camera Alfredo Biondi, liberale, accorso in transatlantico per difendere Tajani e precedere le prevedibili proteste dell’associazione della stampa parlamentare. Cui seguì la deplorazione della severa presidente dell’assemblea Nilde Iotti. Che veniva da noi chiamata, con spirito più deferente che critico, “la zarina di Montecitorio”, e della quale è in alcuni tratti davvero toccante il racconto, anzi il ritratto umano, oltre che politico, fattone nei “Passi perduti” di Giorgio Giovannetti dal più stretto e fidato dei suoi collaboratori: Giorgio Frasca Polara.

Anche al solitamente pacioso Paolo Cirino Pomicino, al netto della simpatica vivacità napoletana, toccò una volta di derogare dalla linea prudente del suo amico e capocorrente Andreotti in tema di rapporti con i giornali. Gli capitò da ministro del Bilancio di precedere di parecchi anni la rivolta dei grillini contro gli editori “impuri”, che usano i giornali di loro proprietà per difendere attività di tutt’altro segno.

OCCUPARSI DEI GIORNALI ITALIANI

In particolare, Pomicino disse che i giornali italiani erano in mano a “poche famiglie” e che “prima o poi bisognerà occuparsene”: cosa, appunto, che si è appena proposto di fare il vice presidente grillino del Consiglio Luigi Di Maio per vendicare l’appena assolta sindaca di Roma Virginia Raggi dall’accusa di falso. Come se fossero stati i giornalisti a rinviarla a giudizio soccombendo col risultato di primo grado.

Così Di Maio, iscritto peraltro all’Ordine dei Giornalisti della Campania nell’elenco dei pubblicisti, ha tenuto il passo con l’amico e concorrente Alessandro Di Battista, stanco di viaggiare alla Che Guevara e smanioso di buttarsi nella mischia in Italia sotto le cinque stelle. È suo, dal lontano Nicaragua, il paragone fra giornalisti e “puttane”, con tanto di scuse a quest’ultime.

Non parliamo, tornando indietro con gli anni, delle picconate della buonanima di Francesco Cossiga, quando era presidente della Repubblica, contro l’omonima Repubblica di carta e il suo editore Carlo De Benedetti, da lui trattato peggio che da Bettino Craxi. I cui rapporti con i giornalisti e gli intellettuali dei “miei stivali”, come scappò una volta di dire al leader socialista, raggiunsero picchi memorabili, fra le proteste di Sandro Pertini al Quirinale. Che con i giornali e i giornalisti aveva rapporti eccellenti, anche se ogni tanto, in verità, strapazzava gli uni e gli altri con telefonate di protesta per qualche torto che riteneva di avere ricevuto.

Che dire poi delle “iene dattilografe” gridate da Massimo D’Alema contro i colleghi giornalisti che non ne apprezzavano doti e sarcasmo? O del sospetto una volta espresso dal mitico direttore del Tg 3 Alessandro Curzi che il compagno di partito Claudio Petruccioli volesse fargli la festa alla Rai?

IN TEMPI RECENTI

Ebbene, pur in presenza di reazioni a dir poco vivaci, nessuno fu davvero colto in quei tempi e frangenti da preoccupazioni vere per le sorti della libertà di stampa, presidio di una vera democrazia, come ha appena ricordato o ammonito Sergio Mattarella, evidentemente colpito pure lui dalla veemenza e dalla frequenza degli attacchi dei grillini a giornali e giornalisti non allineati, o non sufficientemente allineati, tanto da potersi risparmiare il rimprovero appena rivolto in una intervista al Foglio dall’ex direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli a quanti cedono il microfono al grillino di turno senza mai interromperlo con una domanda scomoda. O si mettono disciplinatamente in coda nella fila della lottizzazione di turno.

De Bortoli perse peraltro la direzione del Corriere dando del “maleducato di talento” all’allora presidente del Consiglio e segretario del Pd Matteo Renzi.

Evidentemente ora il clima politico, e sociale, è davvero cambiato. E si ha paura di quello che era impensabile pur dietro o davanti agli schiaffi e quant’altro, dopo l’avventura irripetibile di un giornalista – Benito Mussolini – che aveva eliminato la libertà di stampa in Italia.

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