Il referendum dell’8 e del 9 giugno è destinato a scaldare gli animi tra maggioranza e opposizione, ma la questione più spinosa è la faglia aperta all’interno del PD
Da un lato gli appelli a non votare, dall’altro un’opposizione che si presenterà divisa alle consultazioni dell’8 e 9 giugno. Dopo le dichiarazioni di Tajani e La Russa, cresce la protesta contro i tentativi di affondare il referendum. E sul banco degli imputati ci finisce il servizio pubblico, accusato di non garantire la giusta visibilità alle ragioni del voto. Ma il fronte più caldo riguarda l’opposizione, con un gruppo di europarlamentari dem che sconfessa apertamente la linea sposata dalla segretaria Elly Schlein e si posiziona a difesa del Jobs Act.
MAGGIORANZA COMPATTA SULL’ASTENSIONE
La posizione della maggioranza si è consolidata ben presto sulla scelta dell’astensione. Il primo a iscriversi alla campagna contro il referendum è stato Antonio Tajani, che la scorsa settimana definiva l’astensione una “scelta politica”, precisando i suoi distinguo tra elezioni politiche e consultazioni referendarie. Ma la linea di Tajani è la stessa che, in maniera ufficiosa, sarebbe stata comunicata ai deputati e senatori Fdi tramite una nota interna a firma di Giovanbattista Fazzolari intitolata “Referendum, scegliamo l’astensione”.
Su posizioni analoghe s’è schierato pochi giorni fa anche il presidente del Senato Ignazio La Russa, che durante un evento a Firenze ha dichiarato: “continuo a dire che ci penso, però di una cosa sono sicuro: farò propaganda affinché la gente se ne stia a casa”. La Lega si allinea, mentre l’unica voce fuori da coro è Noi Moderati, che si sfila parzialmente dagli inviti all’astensione, pur rivendicando il proprio No ai quesiti referendari.
L’ESPOSTO CONTRO LA RUSSA E LE CRITICHE ALLA RAI
Nel mirino dei sostenitori del “sì” c’è anche la Rai, accusata da +Europa e Partito Democratico di oscurare il dibattito referendario. In commissione di Vigilanza è stato denunciato un “blackout informativo” che, secondo l’opposizione, non è affatto casuale.
A questa denuncia si è aggiunto anche un esposto presentato alla Procura della Repubblica da +Europa e dal gruppo Boicotterai. Il documento, firmato da Matteo Hallissey, contesta le dichiarazioni di La Russa, ritenendole in violazione dell’articolo 48 della Costituzione, che considera il voto un dovere civico, e dell’articolo 98 del Testo unico elettorale, che vieta di incitare all’astensione.
PARTITO DEMOCRATICO DIVISO
Ma il vero nodo politico riguarda le divisioni all’interno del Pd sui quesiti referendari che concernono l’abrogazione di alcune norme introdotte dal Jobs Act, i sintomi della spaccatura erano evidenti già a febbraio, quando l’ala centrista del partito aveva abbandonato l’assemblea della direzione nazionale prima di votare la mozione della segretaria Schlein che schierava il partito sulla linea del Sì.
Un ulteriore segnale di distanza dalla segreteria era giunto poi da Milano, con la costituzione del Circolo Matteotti, iniziativa politica volta a radunare un’area di orientamento riformista ed europeista che non si sente attualmente rappresentata.
LA LETTERA DEI RIFORMISTI DEM
Lo schiaffo definitivo alla linea Schlein viene ufficializzato oggi sulle pagine di Repubblica, dove appare una lettera sottoscritta da vari europarlamentari dem: Giorgio Gori, Lorenzo Guerini, Marianna Madia, Pina Picierno, Lia Quartapelle e Filippo Sensi. Molti dei quali, guarda caso, tra i firmatari del suddetto Circolo milanese.
“Voteremo sì al referendum sulla cittadinanza e sì al quesito sulle imprese appaltanti. Ma non voteremo gli altri 3 quesiti, perché la condizione del lavoro in Italia passa dal futuro, non da una sterile resa dei conti con il passato”. Secondo i firmatari, il quesito che andrebbe a colpire il contratto ” a tutele crescenti” rischia di ripristinare la situazione alle condizioni della riforma Monti-Fornero, con il ritorno del reintegro in caso di “manifesta insussistenza”, scenario ritenuto molto raro dai sei mittenti, e la riduzione del periodo di indennizzo a fronte di un licenziamento illegittimo che tornerebbe alle 24 mensilità, contro le 36 attuali.
Una presa di distanza ben accolta dallo stesso Renzi, che toglie l’accento sulla campagna verso l’astensione e critica la strategia dei pro voto. Secondo il leader di Italia Viva, “il Referendum sul Jobs act è un errore della Cgil: Landini mette il Pd nella posizione di chiedere l’abrogazione delle riforme fatte dal Pd e fa un grande regalo a Meloni. Che se la ride”. E lancia un messaggio all’area riformista: “Schlein — dice — ha spostato l’asse a sinistra, ma un’area riformista, una tenda che sia pronta ad accogliere non solo quelli più di sinistra ma anche quelli più riformisti, al Pd serve”.
IL NODO JOBS ACT
La faglia tra i sostenitori del referendum e le correnti che difendono le riforme renziane, pur condividendo la battaglia sulla cittadinanza, si è generata con la scelta della segreteria del partito di sposare la linea Landini, tra i promotori, attraverso la Cgil, dei quesiti sul lavoro, per i i quali sono state raccolte oltre 4 milioni di firme (il referendum sulla cittadinanza, invece, è promosso +Europa, Riccardo Magi, Possibile, Partito Socialista Italiano, Radicali, Rifondazione Comunista e associazioni della società civile). Ma anche il fronte sindacale si presenta diviso, con la Cisl che si schiera apertamente a fianco dell’astensione per bocca della segretaria Daniela Fumarola, mentre la Uil ha appoggiato l’iniziativa della Cgil.
Schlein, dal canto suo, vorrebbe trasformare il Pd nel partito dei lavoratori e ritiene necessario segnare una cesura con le politiche dell’era renziana. Ma non trova sponde verso il centro e si ritrova schiacciata a sinistra, senza peraltro trovare un aperto sostegno da parte del M5S, che non darà un’indicazione ai propri elettori. L’intenzione era ben altra, ma i suoi calcoli sono stati vanificati dal giudizio della Corte Costituzionale che ha escluso il quesito più importante per mobilitare la base del partito, quello sull’autonomia differenziata.