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Lo smart working non è la soluzione

Smart Working

Francesco Pugliese, CEO Conad: “Quello che serve è creare lavoro. Non sarà lo smart working a risollevare questo Paese”

L’argomento dello smart working prima o poi va affrontato seriamente. Per ora è come per la cassa integrazione, cioè finché c’è lo stato di emergenza rimane e poi si vedrà. Una cosa di breve termine, non strutturale. Invece proprio adesso dobbiamo pensare a cosa fare quando cadrà l’alibi dell’emergenza e persone e imprese si ritroveranno a dover gestire questa realtà senza più paracadute. Se non c’è un piano per uscire dalla recessione oltre che dalla pandemia, hai voglia a ricreare un clima di fiducia, a rilanciare l’economia e i consumi!

La questione dello smart working ha due complessità. Intanto nel 99% dei casi parliamo di telelavoro, che ha gli stessi orari dell’ufficio, ma senza l’ufficio. Lo “smart” è una roba diversa, senza orari, ma solo con obiettivi. Se tutto il mondo decide che il lavoro da casa – chiamiamolo così – è l’unica via, poi qualcuno lo deve spiegare anche alla cassiera della Conad che, invece, si deve alzare alla mattina, uscire di casa, stare a contatto coi clienti coi rischi annessi e connessi.

Il telelavoro non riguarda tutti, prima di pensare a un’evoluzione in una certa direzione del mercato del lavoro bisogna lavorare per non generare degli squilibri micidiali. Ricordiamoci sempre che la priorità per la ripartenza è il lavoro e non i posti di lavoro.

Tempo fa Beppe Sala ha scritto che lo smart working “non può essere preso in considerazione senza valutare sino in fondo anche tutti gli effetti collaterali e le ripercussioni che una adozione massiccia di questa modalità può generare sulle città”. Ha decisamente ragione, ma non limiterei il discorso alle città. Gli uffici, grandi o piccoli, sono ovunque. C’è tutto un mondo che vive intorno. È facile fare retorica sui bar, ma sfido chiunque a dire “basta, non servite più a nulla” a quell’esercito di persone che alle 7 di sera timbra il cartellino per fare le pulizie, la manutenzione, la guardia.

Il lavoro si crea costruendo equilibri, non discriminazioni. Il telelavoro può anche avere un senso per ridurre la pressione quotidiana sugli uffici, sulle città e sui mezzi di trasporti, indubbiamente riduce i costi delle aziende (non facciamo finta che questo elemento non esista!), poi sicuramente ha il grande scopo oggi di contenere il contagio mandando meno gente in giro, ma non può e non deve diventare la nuova regola.

Mai come oggi serve che l’Italia si mostri unita nel disegnare il suo futuro, mettendo da parte qualche piccola rendita di posizione, per provare a trovare un nuovo equilibrio. Un equilibrio che continui a premiare il lavoro in ufficio come quello dietro una cassa e che prima di mettere a rischio i diritti di alcuni, inizi a occuparsi di darne in più a chi, specie quando si parla di lavoro, ancora li vede col binocolo. Non ha senso lo smart working se le consegne della pizza e la raccolta dei pomodori la fanno degli sfruttati.

Su questo nuovo equilibrio si costruisce la fiducia. Ed è la fiducia la vera chiave della crescita e del rilancio dei consumi.

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