Il Ministro dell'Economia finisce nella bufera per le sue dichiarazioni che delineano una manovra "lacrime…
I subbugli a 5 stelle dei Dem
A rischio suicidio l’accordo Zingaretti-Di Maio, parola di Sergio Staino
Il Bobo del vecchio e simpatico Sergio Staino, che si è buttato metaforicamente nelle acque della Stampa all’annuncio della figlia, sotto l’ombrellone, del “pieno accordo tra Di Maio e il Pd”, è disperso. Lo stanno cercando per acqua, sabbia e terra. Se si è ucciso o scomparso in altro modo ce l’ha sulla coscienza Nicola Zingaretti. Così come Matteo Renzi, il cui zampino c’è anche in questa vicenda, ha sulla coscienza la chiusura definitiva dell’Unità dopo averne affidato la direzione proprio a Staino. Che neppure con la sua popolarità di generoso e geniale militante riuscì a convincere i vecchi lettori a tornare ad acquistarlo nelle edicole, o ad abbonarvisi, ma trovò sbarrate anche le casse del partito una volta generose – ai tempi delle Botteghe Oscure – con la storica testata fondata da Antonio Gramsci.
In fondo, pur provenendo dalla Dc e pur avendo già rottamato uno come Massimo D’Alema, e non disdegnando un certo anticomunismo, Renzi aveva avuto il coraggio mancato ai comunisti o post-comunisti di portare il Pd dal limbo in cui l’aveva collocato il primo segretario Walter Veltroni nella grande famiglia del Partito Socialista Europeo. In cambio Staino gli aveva perdonato tutto il resto, non immaginando – poveretto – quante altre cose Renzi avrebbe avuto l’imprudenza di fare, compreso l’abbandono del Pd e prima ancora – roba persino di pochi giorni – la conversione all’alleanza di governo con i grillini. Che fu preferita l’anno scorso, e continua ad essere preferita, alle elezioni anticipate a rischio di vittoria del centrodestra a trazione leghista.
Con l’entusiasmo dei neofiti, e pur essendo stato poi accusato da Renzi di andare troppo a rimorchio dei pentastellati, Zingaretti è arrivato anche al disarmo giudiziario unilaterale nei rapporti con i nuovi alleati, ritirando o rinunciando a tutte le cause intentate dal Pd per difendersi dal fango rovesciatogli addosso dal Movimento fondato da Beppe Grillo. Per fortuna, tuttavia, in questa orgia penitenziale o di “volemosene bene” anche dalla prima fila del Pd si è levata qualche voce di protesta e di dissenso.
L’ex presidente del partito, Matteo Orfini, ha parlato di “resa”. Il capogruppo al Senato Andrea Marcucci, un vecchio sostenitore di Renzi rimasto nel Pd non credo soltanto per conservare il suo posto, né per fare l’infiltrato e seguire in un altro momento il suo amico e conterraneo, ha annunciato in una intervista al Corriere della Sera che continuerà a “contrastare gli haters”, cioè gli odiatori, “anche legalmente, di qualsiasi parte siano. Ci sono accuse infamanti che sono state fatte al Pd – ha detto Marcucci – difficilmente archiviabili senza che qualcuno avverta di avere sbagliato”.
La natura unilaterale del disarmo giudiziario fra Pd e 5 Stelle sopravvive alla rinuncia comune alle cause annunciata dalle parti per il semplice fatto che le denunce erano prevalentemente piddine.
Ma Marcucci ha soprattutto ricordato a Zingaretti il dovere a questo punto, trasformando l’alleanza con i grillini da occasionale o straordinaria in organica e strutturale, dal centro alla periferia, di renderne conto a un congresso, avendo ricevuto il mandato di segretario in ben altre condizioni e con ben altre prospettive politiche. Egli infatti condizionò un’intesa di governo con le 5 Stelle ad un passaggio elettorale nazionale che ora invece si vuole evitare ad ogni costo. Quello di Marcucci a Zingaretti è un po’ un arrivederci congressuale a Filippi.