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Vi presento il nostalgico Pd di Zingaretti

Referendum

I graffi di Damato 

Con l’aria del “gatto mammone” che gli ha attribuito Il Foglio il segretario Nicola Zingaretti ha mandato in ferie la direzione del Pd fingendo di credere ancora alla crisi con la nomina di una delegazione incaricata di seguire gli sviluppi della situazione quando un governo, non riuscendo più a tirare a campare, deve tirare le cuoia. Fanno parte di questa delegazione da emergenza, come al solito, col segretario del partito il presidente, i vice segretari, i capigruppo parlamentari ma, questa volta, anche il tesoriere. Che, essendo l’ex capogruppo del Senato Luigi Zanda, il numero 2 della corrente di Dario Franceschini, sbilancia di fatto a favore di quest’ultimo gli equilibri interni formatisi dopo il congresso.

Franceschini, pur provenendo dalla sinistra democristiana, sulle tracce di un padre che adorava politicamente Benigno Zaccagnini, ha ereditato dalla Dc la vocazione, la tentazione, l’abitudine, chiamatela come volete, della componente dorotea. Che, diversamente dalla sinistra, rifuggiva da ruoli di opposizione o di minoranza. Essa era incollata al potere, interno ed esterno al partito, come una cozza, o un’edera alla parete sulla quale cresce.

Pur di indole conservatrice, i dorotei fiutavano come pochi altri i cambiamenti e cercavano di adattarvisi, a volte persino di accelerarli pur di non trovarsi spiazzati dagli eventi. Aldo Moro, che era stato a lungo doroteo con Antonio Segni, Emilio Colombo, Mariano Rumor e tanti altri, finì per scavalcare lìappena detronizzato Amintore Fanfani nella gestione del centrosinistra, come fu chiamata la politica dell’apertura ai socialisti per superare la fase del centrismo. E quando lo statista pugliese destinato a quella orribile morte del 1978, per mano delle brigate rosse, uscì dalla corrente, praticamente allontanato da Palazzo Chigi nel 1968 perché troppo disponibile verso i socialisti, Rumor pur di succedergli coniò e guidò la fase che chiamò disinvoltamente “più incisiva e coraggiosa” del centrosinistra, senza più la “delimitazione” morotea della maggioranza a sinistra. Ciò non fu per niente gradito dall’ormai ex presidente del Consiglio, che scavalcò a sua volta gli amici di un tempo aprendo ancora di più ai comunisti con la famosa “strategia dell’attenzione”.

Adesso che i comunisti almeno nominalmente non ci sono più, il doroteismo post-democristiano, chiamiamolo così, trapiantato da Franceschini nel Pd-ex tante cose, compreso il Pci, ha gli occhi, la mente -non so francamente se anche il cuore- puntati verso i grillini. E ciò specie da quando costoro sono diventati più deboli con l’alleanza di governo stipulata l’anno scorso con i leghisti, perdendo più di sei milioni di voti a vantaggio elettorale e politico di Matteo Salvini, e sono quindi temuti di meno dal Pd. Che avverte invece Salvini come il nemico peggiore, o più pericoloso, per cui Franceschini ha posto nel proprio partito il problema di cambiare registro, diciamo così, nei rapporti col Movimento delle 5 Stelle, facendo una distinzione sempre capziosa e strumentale in politica, fra il gruppo dirigente grillino e il suo elettorato.

Fedele a questa distinzione -ripeto- sempre capziosa e strumentale in politica, Franceschini è intervenuto dopo le sue prime aperture ai pentastellati per smentire di perseguire un’alleanza di governo con loro, sostituendosi ai leghisti in caso di crisi, come lo hanno accusato di voler fare gli amici pur sparsi dell’ex segretario Matteo Renzi. Egli ha precisato di volere solo accelerare, con le sue aperture, la crisi della maggioranza gialloverde per arrivare ad una crisi che, come la generalità delle crisi, si sa sempre come comincia ma non come finisca, specie se al Quirinale non siede un presidente della Repubblica smanioso quasi caratterialmente, come furono a loro tempo Antonio Segni, Giuseppe Saragat e Francesco Cossiga, di usare quella specie di bomba atomica delle loro prerogative che è lo scioglimento anticipato delle Camere.

Le precisazioni di Franceschini, formalmente non incompatibili con la propensione alle elezioni, sempre in caso di crisi, ripetutamente espressa da Zingaretti per non fare ai grillini, come ha detto nella riunione della direzione, il regalo di sfasciare il Pd discutendo di loro, e superandoli quindi nella confusione interna, hanno permesso di contenere contrarietà, allarme e preoccupazioni in 24 astensioni.

Poi naturalmente si vedrà e si capirà meglio, augurabilmente -almeno per la sorte del partito che è riuscito a salire dal terzo al secondo posto nella graduatoria elettorale del 26 maggio scorso- senza bisogno di ricorrere a quelli che Il Foglio, per tornare alla citazione iniziale, ha definito “i laureati in psicologia comportamentale”, essendo quello dei piddini sul problema dei rapporti con i grillini “un enigma della mente”.

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