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Vi racconto la lunga difesa (30 anni) di Calorego Mannino

MANNINO

Calogero Mannino ha tarscorso una trentina dei suoi 81 anni compiuti il 20 agosto scorso difendendosi dall’amministrazione giudiziaria.  I graffi di Damato

Già a statuto speciale di suo dal lontano 1948, la regione siciliana sul piano giudiziario è diventata a statuto specialissimo. Solo lì poteva francamente accadere che un galantuomo, evidentemente colpevole solo di essere stato un politico, più volte ministro, dalla Marina Mercantile all’Agricoltura, dai Trasporti al Mezzogiorno, potesse trascorrere una trentina dei suoi 81 anni compiuti il 20 agosto scorso difendendosi dall’amministrazione giudiziaria. Che alla fine lo ha assolto da tutte le accuse via via formulate contro di lui dagli uffici dell’accusa, che consentitemi di scrivere con la minuscola: dal concorso esterno in associazione mafiosa a violenza o minaccia ad un corpo politico o istituzionale dello Stato, in riferimento alle cosiddette trattative con la mafia nella stagione delle stragi. Ma lo ha assolto, senza risparmiargli il carcere “preventivo”, prendendosi quasi un terzo della sua vita. Scrivo naturalmente del democristianissimo, mai pentito, direi orgogliosamente irriducibile, Calogero Mannino.

Le ripetute assoluzioni di Mannino-  l’ultima delle quali appena sfornata dalla Cassazione per la vicenda della trattativa, su cui altri imputati condannati in primo grado, tra mafiosi incalliti, generali e uomini politici, sono ancora sotto giudizio in appello, avendo scelto il rito ordinario, e non quello abbreviato saggiamente consigliato all’ex ministro dal suo primo difensore, il compianto giurista Carlo Federico Grosso-  non sono francamente fiori all’occhiello della quanto meno ostinata -sarà pur consentito dirlo- Procura della Repubblica di Palermo.

Quella o quelle di Mannino sono vicende giudiziarie tutte svoltesi nella regolarità formale, che potrebbe persino essere vantata come dimostrazione di un sistema perfettamente garantista, in cui alla fine vince il famoso tempo galantuomo. Ma se questo tempo è lungo quanto quello che ha dovuto aspettare Mannino, capite bene che le cose non stanno per niente come possono apparire agli ottimisti, o ingenui. Qui c’è qualcosa -scusatemi- che grida vendetta. E sarebbe ora che qualcuno si decidesse a cambiare o far cambiare registro nella gestione della Giustizia, per farle meritare davvero la maiuscola che per abitudine siamo ancora soliti conferirle. Ma le responsabilità non sono solo dei magistrati. Sono anche nostre, dei giornalisti, che riusciamo spesso a precederli e fare anche di peggio.

Ricordo modestamente con orgoglio la mattina di quel lontano 1992 in cui da direttore del Giorno abbandonai per protesta la trasmissione in diretta di Mezzogiorno italiano, di una rete allora Fininvest, in cui il conduttore  Gianfranco Funari, vantandosi poi di solidarietà che avrebbe ricevuto personalmente dall’editore nella vicenda, aveva cercato di imbastire un processo proprio contro Mannino per concorso esterno in associazione mafiosa, facendosi forte di una cronaca pseudo-giudiziaria dell’Unità. Lo mandai furiosamente a quel posto prendendomi del “picciotto” da un altro collega ospite.

Vorrà pur dire qualcosa se, a parte le prime pagine di qualche giornale, chiamiamolo così, di nicchia garantista, oggi per trovare la notizia dell’assoluzione definitiva di Mannino bisogna spingersi a pagina 24 del Corriere, 13 del Messaggero, 9 della edizione palermitana di Repubblica, 10 del Tempo e Avvenire. Ditemi voi se questo è giornalismo.

TUTTI I GRAFFI DI DAMATO. 

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