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Vi racconto la “vanità” del Governo

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Quella “mangiatoia delle vanità” denunciata da Papa Francesco mi ha fatto venire in mente il Governo. I graffi di Damato

Della predica di Papa Francesco nella Messa di Natale ha molto e giustamente colpito l’informazione televisiva e on line, nella breve pausa che si è data la carta stampata, l’esortazione all’ottimismo in questi tempi di pandemia. Che hanno peraltro costretto in uno spazio relativamente angusto della imponente Basilica di San Pietro la solenne celebrazione religiosa.  Anche questa volta, ha detto praticamente il Pontefice, usciremo dal tunnel della paura, per quanti errori possano essere stati compiuti nella gestione dell’emergenza e possano ancora compiersi, adesso che si è aperta la fase delle vaccinazioni.

Ma a chi in qualche modo è condannato dalle abitudini o dal mestiere a seguire la politica – nell’avvicendarsi addirittura delle Repubbliche, peraltro a Costituzione sostanzialmente invariata, salvo per alcune parti che ne  hanno ridotto l’autonomia a vantaggio del potere giudiziario o hanno dilatato a tal punto i poteri locali da compromettere il governo del Paese- non ha potuto non procurare una scossa quell’immagine della “mangiatoia delle vanità” contrapposta da Papa Francesco alla mangiatoia dell’umiltà e, insieme, sacralità in cui nacque Gesù.

Quanta “vanità” in effetti si può scorgere nella crisi sospesa o congelata in cui si sta concludendo questo sfortunatissimo 2020. Abbiamo la vanità, certo, di chi è sempre all’attacco, dall’opposizione ma anche dall’interno di una maggioranza troppo composita e affrettata per non prevederne l’intrinseca debolezza, ma anche la vanità di chi è arroccato nella difesa di un equilibrio che è ormai saltato nei rapporti politici, e persino in quelli personali, senza neppure il pudore ormai di nasconderlo.

Un presidente del Consiglio -spiace dirlo- che sembrava prestato alla politica ne è diventato un professionista incallito, com’è d’altronde capitato anche ad altri che l’hanno più o meno preceduto ai confini tra la cosiddetta società civile contrapposta a quella politica, o del Paese reale contrapposto al Paese legale.

Pure Silvio Berlusconi, benedett’uomo, peraltro confortato a lungo da un ampio consenso elettorale, sembrò arrivato a Palazzo Chigi per liberare il Paese da una politica che l’aveva troppo asservita e ne divenne rapidamente un “signor professionista”, come gli disse una volta pranzando con la sua famiglia uno che s’intendeva di queste cose e di questo mondo: l’ex presidente, o presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga. Che peraltro proprio in quel periodo stava beffardamente pescando nelle sue acque -quelle del centrodestra- per improvvisare un partito che serviva a portare alla guida del governo Massimo D’Alema, dopo la prima caduta di Romano Prodi dall’albero dell’Ulivo del cosiddetto centrosinistra.

Abbiamo inoltre assistito alla metamorfosi politica di “tecnici” che sembravano impermeabili ai partiti come Lamberto Dini e Mario Monti, finiti per allestirne di propri dalla durata effimera. Ora è il turno  di Giuseppe Conte, che galleggia sulla paura delle elezioni anticipate da parte di chi sa di uscirne comunque indebolito, cioè tutti dopo il taglio cosiddetto lineare dei seggi parlamentari, e sulla crisi identitaria, oltre che elettorale, dell’ex ormai partito di maggioranza -quello grillino-uscito dalle urne del 2018. Tutto il resto è chiacchiera.

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