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Visioni e divisioni in Italia su Salvini in Usa

I Graffi di Damato sulle reazioni domestiche alla visita di Matteo Salvini a Washington

In attesa di verificare, davanti e dietro le quinte del vertice europeo, gli inevitabili effetti politici, negativi o positivi che finiscano per rivelarsi, di un governo italiano che resiste alla procedura d’infrazione per debito eccessivo su una posizione di dignitosa fermezza, e non solo di disponibilità al solito compromesso, grazie anche ad una rete di rapporti oltre Oceano che si è appena intestato il vice presidente leghista del Consiglio, conviene tornare sulle reazioni “domestiche” alla visita di Matteo Salvini a Washington dopo il successo elettorale del 26 maggio.

L’APPOGGIO STATUNITENSE

Una volta gli Stati Uniti andavano bene ai partiti italiani di governo, e ad un certo punto anche al maggiore partito di opposizione, il Pci retto da Enrico Berlinguer e successori, qualunque fosse il colore politico dell’amministrazione americana, democratica o repubblicana. Certo, a sinistra poteva piacere più la prima che la seconda, e viceversa alla destra, anche quella missina che non aveva ancora chiuso del tutto i conti con la fine del fascismo e della seconda guerra mondiale, ma l’America rimaneva l’America. Guadagnarsene i favori era sempre un affare ambito.

Ora che il mondo non è più bipolare e del muro di Berlino siamo in tanti a conservare in casa dei cocci  procuratici da amici fortunatamente testimoni o addirittura partecipi degli storici eventi del 1989, l’interesse per gli Stati Uniti è diventato peloso. Esso dipende dall’inquilino di turno alla Casa Bianca e da chi di volta in volta può trarne vantaggio in Italia.

L’ACCOGLIENZA A SALVINI

Il fatto che Salvini, senza peraltro compromettere più di tanto i suoi rapporti con Putin, o rovesciarne il giudizio, sia stato accolto a Washington, e ne sia tornato, con buona considerazione, facilitato peraltro dalla prospettiva non certo peregrina di diventare prima o poi il presidente del Consiglio, ha fatto perdere bussola e testa a molti che una volta solo a sentire criticare gli Stati Uniti, o dubitare della loro identificazione con l’Occidente, si strappavano le vesti.

L’OCCIDENTE IDENTIFICATO NEGLI STATI UNITI

Il mio amico Ezio Mauro, per esempio, mi è sembrato sulla Repubblica di qualche giorno fa letteralmente smarrito. Si era perduto per strada l’Occidente, con la maiuscola. Per sua sfortuna non ha potuto leggerlo e consolarlo, con qualcuna delle sue celebri e fulminanti battute, il compianto americano ad honorem Gianni Agnelli, che lo volle giustamente alla direzione della sua Stampa, a Torino, e ci rimase male quando Eugenio Scalfari e Carlo De Benedetti glielo portarono via.

Un Occidente in mano a Trump e un Trump, a sua volta, smanioso di farsi fotografare la prossima volta con Salvini senza bisogno di fingere poi di non ricordarsene, come accadde durante la campagna elettorale che lo portò alla Casa Bianca, sono per l’ex direttore di Repubblica ossimori da infarto.

LA VISIONE ANTI-AMERICANISTA

Non parliamo poi degli anti-americani viscerali di un tempo, che hanno trovato in Trump e in una protesi  Salvini finalmente la prova regina della loro antica diffidenza e ostilità per gli Stati Uniti. Il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio – e chi sennò?- ha pubblicato un articolo di Pino Arlacchi, già parlamentare della sinistra e direttore degli uffici delle Nazioni Unite a Vienna, in cui Trump è stato rappresentato come “il padrino” di una Mafia mondiale, che non poteva naturalmente non incrociare e arruolare il leader leghista inaffidabile, anzi penoso, nelle sue dichiarazioni di guerra in Italia a mafiosi e affini.

Per il suo anti-americanismo viscerale Arlacchi aveva già messo in difficoltà negli anni Novanta Massimo D’Alema, che si diede da fare per procurargli quella destinazione alle Nazioni Unite che gli consentisse di rinunciare al seggio rosso blindatissimo del Mugello al Senato. Dove lo stesso D’Alema fece immediatamente eleggere il magistrato allora più famoso e idolatrato nelle piazze: naturalmente Antonio Di Pietro. Al quale gli Stati Uniti piacevano moltissimo, frequentandone gli uffici consolari a Milano e accettando ogni invito formulatogli oltre Oceano per descrivere la decapitazione giudiziaria, in corso in Italia, di un’intera classe dirigente troppo a lungo scambiata negli Usa per un esempio di patriottismo anticomunista.

Pensate un po’, Arlacchi è riuscito a scrivere che gli Stati Uniti si inventarono o ingigantirono negli anni Settanta e Ottanta i missili sovietici puntati contro le capitali europee per ingaggiare una corsa agli armamenti finalizzata al crollo economico e infine politico  di quel Paradiso in terra che era, secondo lui, l’Unione Sovietica.

Alla scuola immaginaria di Arlacchi potrebbe ben iscriversi, per le idee che ha della politica estera, il grillino ricomparso minacciosamente sulla scena nelle ultime ore: Alessandro Di Battista, il Che Guevara dei Noantri.

 

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