Non è un semplice detenuto con decenni di carcere sulle spalle: Marwan Barghouti è diventato l’emblema di una speranza e di una ferita politica per il popolo palestinese. Motivo per cui a nessuno interessa davvero la sua scarcerazione
“Non sono un terrorista, ma neppure un pacifista. Sono semplicemente un normale uomo della strada palestinese, che difende la causa che ogni oppresso difende: il diritto di difendermi in assenza di ogni altro aiuto che possa venirmi da altre parti” scrisse nel 2002 in un editoriale sul Washington Post.
Per il The Economist è il prigioniero più importante al mondo, per i gazawi un simbolo di libertà, l’icona da murales sui muri costruiti dagli israeliani, per i tribunali di Tel Aviv un sanguinario eversore.
Imprigionato da oltre vent’anni per terrorismo – condanna che lui respinge – nel tempo Marwan Barghouti è assurto al ruolo di figura mitica della resistenza palestinese. In molti, perfino ex capi dello Shin Bet, guardano a lui come all’uomo che potrebbe rimettere al centro l’Anp e marginalizzare Hamas. Per questo, la sua scarcerazione non conviene a nessuno, e infatti il suo nome non c’è nella lista di prigionieri che verranno rilasciati da Tel Aviv nelle prossime ore in cambio della liberazione degli ostaggi israeliani.
LEADER IN POTENZA DELL’ANP
Incarcerato dal 2002, durante la Seconda Intifada, spesso accostato alla figura di Nelson Mandela, oggi Barghouti viene indicato da molti come la chiave di volta per garantire una leadership chiara al popolo palestinese. Da settembre 2023 è dato in testa a tutti i sondaggi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza per assumere la guida dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) e i dati di maggio del Palestinian Center for Policy and Survey Research lo danno addirittura avanti di due posizioni rispetto a Mahmoud Abbas, solo terzo.
CHI È MARWAN BARGHOUTI
Nato nella Cisgiordania rurale, Barghouti si forma politicamente prima come leader studentesco all’università di Birzeit e poi come dirigente di Fatah. Negli anni Novanta diventa una figura centrale del movimento e, per molti, l’erede naturale di Yasser Arafat.
Nella fase successiva agli Accordi di Oslo si costruisce una reputazione di critico della corruzione interna e come figura capace di parlare tanto con la base palestinese quanto, grazie alla sua conoscenza dell’ebraico, con interlocutori israeliani.
LA SECONDA INTIFADA E L’ARRESTO
Con lo scoppio della Seconda Intifada (autunno 2000) la sua immagine cambia: Barghouti viene associato alla guida politica — e secondo Israele anche operativa — di comandi e milizie di Fatah, tra cui il gruppo paramilitare Tanzim e le cosiddette Brigate dei Martiri di al-Aqsa.
Catturato nell’aprile 2002 durante l’operazione israeliana “Scudo difensivo”, fu processato e condannato, nel 2004, a cinque ergastoli più decenni di carcere per omicidi, tentati omicidi e appartenenza a organizzazione terroristica — condanne che lui respinge.
23 ANNI IN CARCERE IN ISRAELE: MITO, ATTIVISMO E SIMBOLISMO
Dietro le sbarre Barghouti non sparisce: organizza scioperi della fame, coordina iniziative del movimento dei prigionieri, scrive articoli e mantiene un filo diretto con ampi settori dell’opinione pubblica palestinese. Un’attività che ha contribuito a trasformarlo in un simbolo: per una larga fetta della popolazione palestinese è il leader che non ha ceduto alla corruzione politica, capace — nella narrativa popolare — di incarnare sacrificio e coerenza.
PERCHÉ ISRAELE SI OPPONE CON FORZA ALLA SUA LIBERAZIONE
Dal punto di vista israeliano il problema è duplice. Sul piano della sicurezza, Barghouti è considerato responsabile di attacchi che causarono numerose vittime: rilasciarlo equivarrebbe, agli occhi delle autorità e di una parte dell’opinione pubblica israeliana, a normalizzare e persino legittimare quegli atti.
Sul piano politico-strategico, molti governi israeliani hanno perseguito una strategia di divisione tra Hamas e Fatah: un Barghouti libero e popolare che spinge per un’unità nazionale palestinese minerebbe quella strategia e potrebbe trasformare la Cisgiordania in un fronte politico autonomo e difficile da controllare.
E HAMAS?
Se lo scambio di prigionieri è la condizione su cui costruire il cessate il fuoco, una vera pace “duratura”, per usare il lessico di Trump, sarà possibile soltanto se il popolo palestinese avrà una leadership chiara e riconosciuta dal basso. Malgrado la missione dichiarata di Netanyahu sia quella di “annientare Hamas”, fin qui il movimento è stata l’unica rappresentanza dei gazawi ammessa ai negoziati con Israele.
Il movimento ha inserito il nome di Barghouti tra i prigionieri richiesti in cambio del rilascio di ostaggi, segnalando che lo considera prezioso. Al tempo stesso, però, la sua liberazione porrebbe a Hamas un dilemma: consegnare nelle mani di un leader carismatico e popolare una leva enorme — capace di ridisegnare assetti e legittimità — potrebbe alterare rapporti di forza interni nella Striscia e nella regione, e togliere a certe fazioni estreme la leadership del conflitto.
Per questo il veto di Israele sulla scarcerazione conviene anche al movimento islamista, che spera forse di giocarsi ancora le sue chance e mantenere la leadership quantomeno su Gaza.