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Hamas

Perché Hamas ritarda la risposta al piano di pace di Trump

Il destino di Gaza e del popolo palestinese rimane appeso al responso di Hamas sul piano Trump: la leadership militare teme di firmare la propria condanna, ma al contempo non vuole apparire responsabile del fallimento del negoziato. I nodi del braccio di ferro e il ruolo del “fantasma” al-Haddad

Il mondo si allinea progressivamente al piano Trump, ma la proposta non è ben vista dalla leadership di Hamas, che prova a prendere tempo, conscia che le attuali condizioni segnerebbero la fine del proprio potere, oltre a non offrire garanzie reali per il popolo palestinese.

La proposta di accordo in 20 punti formulata dagli Usa e approvata con revisioni dal governo israeliano promette infatti un immediato cessate il fuoco e uno scambio ostaggi-prigionieri, ma impone anche il disarmo delle forze di Hamas e non chiarisce le tempistiche del ritiro israeliano dalla Striscia.

IL PRESSING PER LA CHIUSURA E I CALCOLI POLITICI

Ma il pressing sulla chiusura dell’accordo non riguarda tanto l’aggravarsi della crisi umanitaria, quanto piuttosto il calcolo politico di tutti gli attori coinvolti: Trump vuole mettere a referto l’ottava – a detta sua – pacificazione da quanto è tornato alla Casa Bianca e Israele preme per ottenere il rilascio degli ostaggi entro il secondo anniversario del 7 ottobre.

Sull’altro versante, Hamas sa bene che un sì equivarrebbe alla fine del suo controllo sulla Striscia. I miliziani sono convinti che il piano sia stato studiato apposta per cancellarli, ma al contempo non vogliono apparire come l’unico freno alla fine delle ostilità, tanto più che la Turchia e i Paesi arabi sembrano orientati a non offrire alcuna sponda per un’eventuale opposizione al piano.

I PALESTINESI VOGLIONO IL SÌ AL PIANO TRUMP

Sulla decisione grava il peso dell’opinione pubblica palestinese, stremata da una campagna militare senza quartiere che ha colpito e affamato deliberatamente la popolazione civile: i gazawi vogliono la fine dell’invasione anche a costo di accettare un piano senza garanzie per il proprio futuro. Posizioni che la leadership di Hamas non può permettersi di ignorare, dal momento che gran parte del suo potere deriva dal sostegno popolare.

HAMAS VERSO IL SÌ CON MODIFICHE

Secondo le ultime indiscrezioni, riportate dal quotidiano Times of Israel, una risposta potrebbe arrivare già nella giornata di oggi: l’ipotesi più accreditata è che i miliziani alla fine acconsentiranno all’accordo, ma non senza pretendere delle modifiche al testo proprio sui punti modificati da Israele.

Il tempo stringe: secondo Washington l’intesa sarebbe dovuta arrivare entro 3-4 giorni a partire da martedì mattina, giorno della conferenza stampa in cui è stato presentato il piano. Ora la deadline potrebbe slittare di un giorno, e quindi fino a domenica.

IL NODO SUL DISARMO E SUL RITIRO DELL’IDF DALLA STRISCIA

I nodi principali riguardano il disarmo delle Brigate Qassam e il ritiro dell’Idf dalla Striscia, oltre al timore che la finestra per il rilascio degli ostaggi si tramuti in un assist all’Idf per scovare gli ultimi covi a opporre resistenza, e proprio su questi Hamas ritiene di avere diritto a delle garanzie.

LE RESISTENZE DEL CAPO MILITARE DI HAMAS AL-HADDADI

Il maggior freno alla sottoscrizione dell’accordo è costituito dalla posizione dell’ala militare di Hamas guidata da Izz al-Din al-Haddad, soprannominato “il fantasma”.

Uno dei 20 punti fissati nel piano Trump lo riguarda direttamente: la revisione israeliana al testo ha imposto il disarmo delle brigate Al-Qassam, di cui egli è comandante supremo. E il salvacondotto offerto da Trump ai comandanti di Hamas non lo convince affatto. D’altra parte, al-Haddad è anche il referente per la questione ostaggi, il che gli garantisce un potere contrattuale reale.

 

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