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La frammentazione del sistema partitico francese è colpa di Macron. Parla il prof. De Sio (Cesi)

In Francia al secondo turno circa il 66,7% degli elettori si è recato alle urne. Una grande partecipazione stimolata dall’appello, anche del presidente Macron, a “proteggere” la Repubblica dal successo elettorale del Rassemblement National. Il commento del prof. De Sio sui risultati elettorali francesi.
Il barrage republicaine ha fatto il suo dovere. Il cordone sanitario, costruito dal Nouveau Front populaire e dai macroniani di Ensemble, ha fatto registrare, al secondo turno elettorale, un esito diametralmente opposto a quello uscito dalle urne nel primo turno. Alla forza guidata da Melenchon vanno 182 seggi, a Ensemble di Macron 168 e al Rassemblement national di Marine Le Pen e Jordan Bardella solo 143 parlamentari.
Un risultato frutto anche della massiccia partecipazione popolare, il 66,7%, superiore a quella del primo turno nelle 501 circoscrizioni in cui erano ancora in corsa i candidati. Si tratta di un record, scrive Le Monde, dalle elezioni legislative anticipate del 1997 (71,1% dei votanti al secondo turno), organizzate anch’esse dopo uno scioglimento che aveva portato la sinistra di Lionel Jospin a Palais Matignon. Negli ultimi 24 anni mai così tanti elettori si erano recati al secondo turno: nel 2017 si erano fermati al 57,4%, mentre nel 2022 al 53,8%.
Questo risultato restituisce la fotografia di un paese spaccato in tre tronconi. La partita più difficile sarà quella di trovare la quadratura del cerchio per la formazione del nuovo esecutivo.
Di tutto questo ne abbiamo parlato con il prof. Lorenzo De Sio, ordinario di Scienza Politica presso la LUISS Guido Carli, e direttore del CISE – Centro Italiano di Studi Elettorali.
Il risultato del secondo turno delle elezioni francesi è stato ribaltato rispetto a quello del primo turno. Un ruolo fondamentale è stato giocato dalle desistenze. Ci spiega come funzionano?
Il sistema elettorale francese per le elezioni parlamentari è a doppio turno, al quale accedono non solo i primi due candidati ma tutti i candidati che al primo turno hanno raccolto almeno il 12,5% degli aventi diritto al voto. Ciò significa che in molti collegi non c’era semplicemente una competizione a due come, per esempio, per le elezioni comunali italiane, ma spesso una competizione a tre o anche a quattro. È chiaro che questo rischia di permettere la vittoria anche a candidati con pochi voti se si distribuiscono su tre o quattro candidati. Quello che è successo è che, con un accordo politico, soprattutto i candidati centristi e quelli della sinistra, hanno deciso di desistere.
Cioè, nonostante fossero arrivati al secondo turno, magari come terzi candidati, hanno deciso di rinunciare. In questo modo i loro elettori, se avessero voluto, avrebbero potuto convergere sul candidato rimasto. Questo accordo ha avuto effetti importanti, molto spesso i voti del Nouveau Front Populair e di Ensemble, la coalizione di Macron, si sono sommati e hanno penalizzato il Rassemblement National.
L’Assemblea nazionale emersa dalle elezioni impone la formazione di un governo di coalizione tra soggetti politici sensibilmente differenti. Un esperimento non esattamente facile. L’impianto costituzionale della V Repubblica francese, invece, si prefiggeva di garantire stabilità e governabilità.
La capacità di produrre buone maggioranze parlamentari non dipende soltanto dalle istituzioni, ovviamente, ma anche dalla struttura, dal formato e dalla meccanica del sistema partitico. Il sistema istituzionale della V Repubblica francese ha funzionato tutto sommato abbastanza bene fintanto che c’erano due grandi schieramenti uno di centrosinistra e uno di centrodestra. La variabile che ha fatto impazzire il sistema è stata la rottura consumata da Macron qualche anno fa, quando ha deciso di correre con una formazione deliberatamente centrista; quindi, abbandonando il campo del centrosinistra di cui faceva parte. Questo ha prodotto un cambiamento nel sistema partitico francese. Quando si fa nascere un soggetto centrista una conseguenza molto frequente è la radicalizzazione sia della sinistra che della destra. Questo è quello che è successo in Francia. L’azzardo di voler scardinare la meccanica del sistema partitico francese ha prodotto una situazione complessa.
Quali sono le incognite nella formazione del nuovo governo?
Oggi abbiamo un partito di sinistra radicale, La France Insoumise, un partito di sinistra più moderata, il Partito socialista, i centristi di Macron, una destra più moderata dei repubblicani e la destra più radicale del Front National. Le vere incognite, rispetto alla formazione di un governo efficace, riguardano la leadership di questo governo che sembra andare alla sinistra, in termini di successo elettorale. Il problema è che, in termini programmatici, Macron ha preferenze di policy molto diverse da questo tipo di governo. Quindi, siamo davanti a una situazione di coabitazione tra maggioranza diverse. La difficoltà è la grande eterogeneità di questa maggioranza, perché per riuscire a costruire una maggioranza bisogna mettere insieme la sinistra, anche quella più radicale, e il centro. Questa è la conseguenza dell’azzardo di Macron di aver cercato di scardinare la struttura del sistema partitico francese.
Nell’ultimo finesettimana si sono tenute anche le elezioni in Gran Bretagna. Quali sono le differenze tra il sistema maggioritario inglese e quello francese? E qual è stato il peso del sistema elettorale nella determinazione del risultato?
La differenza è molto semplice. Mentre il sistema francese è a doppio turno, il sistema inglese è a turno unico; quindi, il candidato che arriva primo nel collegio vince il seggio. Questo ha determinato molto del risultato inglese, perché anche nel Regno Unito vediamo una certa frammentazione del sistema partitico. In Gran Bretagna abbiamo assistito al crollo verticale dei conservatori che hanno quasi dimezzato i loro voti passando dal 42% al 24%, a fronte di un Labour Party che è rimasto quasi invariato, intorno al 33%. Con questa frammentazione partitica, il sistema maggioritario a turno unico ha premiato molto i laburisti, che sono risultati il primo partito in tutti i collegi.
È chiaro che, se ci fosse stato un sistema a doppio turno, probabilmente questo avrebbe permesso una convergenza dei voti dei conservatori con quelli del Reform UK, nato dalle ceneri del Brexit Party, e avrebbe permesso ai primi di aggiudicarsi una serie di collegi. Il turno unico, invece, ha premiato i labouristi. Tra l’altro questo è un risultato curioso e, per certi versi, paradossali. Perché la tendenza del risultato è stata quella di uno spostamento a destra: i conservatori hanno perso prevalentemente verso il Reform UK però questo ha avuto come risultato uno spostamento del governo nettamente a sinistra. Quindi questo è un risultato interessante, proprio un effetto dell’interazione tra il sistema partitico e il sistema elettorale.
Avrebbe senso, da un punto di vista elettorale, la creazione di un “Nuovo fronte popolare” nel nostro paese?
Avrebbe assolutamente senso. La versione italiana del Fronte popolare è sostanzialmente l’ipotesi del Campo largo, con la differenza che i partiti più radicali sono molto meno estremi di quanto sia la Francia Insoumise, che ha posizioni molto più radicali, anche del Movimento 5 Stelle, sui temi economici. Quindi il Campo largo sarebbe molto più facile da praticare in Italia. Inoltre, avrebbe effetti importanti sulla competitività.
Nell’ultimo volume curato dagli studiosi del Cise che si intitola “Un polo solo”, abbiamo mostrato che la maggioranza parlamentare solidissima che ha ottenuto Giorgia Meloni è emersa grazie al fatto che le altre forze del centrosinistra, Pd e Movimento 5 Stelle, non si sono alleati. In Italia abbiamo un sistema misto, circa 2/3 dei seggi sono assegnati con un sistema proporzionale ma 1/3 è assegnato con collegi uninominali. Nel 2022 l’80% di questi collegi è stato vinto dal centrodestra proprio per la strategia suicida, direi, del centrosinistra. Invece un centrosinistra unito sarebbe risultato competitivo, quindi non si sarebbe formata una maggioranza così solida come quella di cui può godere la Premier Meloni.
Avrebbe avuto effetti anche sull’affluenza?
Sì, avrebbe richiamato anche una quota di elettori che non sono andati a votare perché l’esito era scontato. Una delle cose che abbiamo imparato dalla scienza politica è che una variabile chiave che spinge alla partecipazione elettorale è la competitività della gara, quando la competizione è aperta, non c’è un vincitore annunciato e si sa che ogni voto può fare la differenza, questo porta a una partecipazione maggiore. Giusto per darle un dato, nelle elezioni del 2022, già dal mese precedente le elezioni, tutti i sondaggi registravano un distacco del centrodestra di circa 18 punti rispetto al centrosinistra. Un distacco così ampio non stimola la partecipazione.