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L’attacco ‘inutile’ dell’Iran e l’allargamento del conflitto israelo-palestinese. Parla Tiziano Marino (CeSI)

Intervista a Tiziano Marino, analista del CeSI, sull’attacco dell’Iran ai danni di Israele e le prospettive di allargamento del conflitto mediorientale

L’attacco dell’Iran a Israele segna una nuova fase del conflitto mediorientale. L’attentato terroristico del 7 ottobre ha dato il via a un’escalation di azioni di guerra che stanno dando forma a un conflitto regionale su vasta scala. Quello che l’analista del CeSI Giuseppe Dentice ha definito a Policymakermag il ‘grande conflitto mediorientale’.

Nonostante il tentativo di affermare la propria influenza attraverso un’azione militare diretta contro Israele, Teheran è, in realtà, un attore indebolito, la cui strategia rischia di scontrarsi con i propri limiti economici e materiali. L’attacco a Israele è stata una ‘sconfitta di Pirro’ (non una vittoria) per l’Iran, perché non solo  i missili iraniani non hanno causato danni al territorio israeliano protetto dai suoi sofisticati sistemi di difesa, ma hanno offerto una giustificazione a una risposta israeliana.

In questo scenario hanno un ruolo anche le elezioni statunitensi la cui imminenza sta regalando a Israele una ‘vacanza di potere’ che gli consente di avere carta bianca nella gestione del conflitto.

Di tutto questo ne abbiamo parlato con Tiziano Marino, analista Asia e Pacifico del CeSI – Centro studi Internazionali.

Come cambiano gli equilibri tra Iran e Israele dopo l’attacco dell’Iran?

Iniziamo con il dire che, in questa fase, l’Iran si trova in una in una posizione di estrema debolezza per due ordini di ragioni. Prima di tutto, la sua strategia regionale, basata sulla presenza di proxy locali in Libano, Siria, Yemen e Iraq, aveva l’obiettivo di scoraggiare Israele e aumentare l’influenza iraniana nella regione. Oggi, però, questo “asse della resistenza” è fortemente indebolito sia dal punto di vista politico che da quello militare. In secondo luogo, l’Iran cerca di evitare uno scontro diretto con Israele, sapendo che una guerra prolungata, che coinvolgerebbe anche gli Stati Uniti, avrebbe conseguenze devastanti per il fronte interno iraniano.

Inoltre, sarebbe molto difficile, se non impossibile, per l’Iran raggiungere obiettivi concreti, sia militari che politici, in un conflitto di lunga durata. Di fronte alla forte pressione israeliana, l’Iran si è trovato a dover scegliere tra due opzioni: non rispondere, perdendo credibilità sia a livello internazionale che nei confronti dei suoi alleati regionali, oppure reagire, rischiando di avvicinarsi a quel conflitto diretto che stava cercando di evitare. Attualmente, l’equilibrio delle forze è tutto a favore di Israele, mentre l’Iran appare indebolito, isolato e distante dal raggiungere i suoi obiettivi.

Il conflitto si può allargare? Finora è stato un conflitto regionale.

Siamo già in una escalation. L’Iran ha fatto un calcolo strategico, giusto o sbagliato che sia, che lo ha portato a rispondere con il lancio di missili per cercare di recuperare un po’ di credibilità. Ora aspettiamo la reazione israeliana, che ci sarà e probabilmente sarà un attacco diretto sul territorio iraniano. A quel punto siamo in prossimità di una spirale senza fine. Perché dopo l’attacco israeliano l’Iran cosa farà? Sarà costretto a rispondere di nuovo. Siamo vicini a un conflitto più ampio, con il Libano coinvolto, e Israele non sembra avere intenzione di fermarsi. Attacchi ripetuti si stanno già verificando sui proxy iraniani, in Yemen, Siria e Iraq. È già una guerra regionale ampia, diciamoci la verità.

Perché l’Iran, che ha una forza economica e militare inferiore a quella di Israele, he deciso di procedere con un attacco?

L’Iran è un paese sotto sanzioni da decenni, con un inasprimento dal 2018. Quindi la situazione economica è difficile, aggravata da problemi politici interni. Nell’ultimo anno, l’Iran ha cercato di rafforzare la propria posizione diplomatica creando un asse a sostegno dei palestinesi, ma con scarsi risultati: molti paesi arabi non l’hanno seguito, se non a livello retorico. Al momento, l’Iran è piuttosto isolato. L’unico alleato di un certo peso è la Russia, che però è fortemente impegnata nel conflitto in Ucraina, un fronte complicatissimo. Basti pensare che è l’Iran a fornire armi ai russi.

L’attacco dell’Iran a Israele è stato un successo o un fallimento? Il premier Netanyahu ne esce rinforzato o indebolito?

Nonostante si sia detto che Netanyahu si trovi in una posizione difficile, attualmente è in una posizione di forza. Non si preoccupa più della comunicazione o della narrazione pubblica, ma si concentra nel perseguire i suoi obiettivi e quello di Israele, con il pieno sostegno degli Stati Uniti e un supporto più o meno velato dal blocco euro-atlantico. Poi, certo, le dinamiche interne in Israele sono complesse, ci sono tensioni ma nel breve termine Netanyahu appare un leader forte capace di prendere decisioni nette. Tanto che può permettersi di dichiarare alle Nazioni Unite che Israele farà ciò che ritiene opportuno.

C’è il rischio che il conflitto si trasformi in una guerra di terra?

È improbabile. L’obiettivo di Israele potrebbe essere quello di indebolire la capacità di risposta iraniana, cosa che può fare tranquillamente con attacchi aerei mirati alle postazioni missilistiche e ai centri di sviluppo del programma nucleare iraniano. Israele potrebbe anche condurre operazioni di ‘target killing’, l’eliminazione mirata contro i vertici politici e militari iraniani, grazie alla sua ampia penetrazione all’interno del territorio iraniano.

Non c’è bisogno di pensare a un’invasione terrestre da parte di Israele o degli Stati Uniti, e lo stesso Israele non dispone delle forze necessarie per un’operazione di questo tipo. Inoltre, è improbabile che gli Stati Uniti vogliano impegnarsi in un nuovo conflitto di lunga durata nella regione. Anche perché gli Usa vorrebbero disimpegnarsi dalla zona. Tuttavia, stiamo vedendo di tutto, quindi io manterrei un certo grado di cautela.

Tra un mese ci saranno le elezioni americane. Come si inserisce l’attacco dell’Iran in questa sorta di “vacanza di potere”?

Sicuramente la situazione elettorale negli Stati Uniti ha un ruolo. Durante la campagna elettorale, nessuno vuole assumersi la responsabilità di abbandonare un alleato strategico come Israele, né di mostrarsi debole di fronte all’Iran che viene percepito come un rivale sul piano internazionale. Tuttavia, questa “vacanza di potere” crea uno stallo: la pressione per un cessate il fuoco a Gaza o in Libano non sta producendo risultati e probabilmente non lo farà finché la campagna elettorale sarà in corso.

L’amministrazione Biden ha ottenuto poco finora, Blinken ha svolto numerosi viaggi in Medioriente senza risultati di rilievo. Inoltre, questa presidenza è in uscita; quindi, le decisioni più importanti potrebbero essere rinviate a dopo le elezioni, o addirittura dopo l’insediamento del nuovo presidente. In questo contesto, Israele ha praticamente carta bianca per perseguire la sua strategia, e le prospettive di un cessate il fuoco si allontanano ulteriormente.

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