skip to Main Content

Che cosa penso del taglio dei parlamentari

I Graffi di Damato sui grillini, affrettatosi nell’aula di Montecitorio a felicitarsi dell’approvazione del taglio dei parlamentari, dimenticando che quanto più si dovesse mettere davvero mano alle modifiche costituzionali, tanto più si avvicinerebbe non la scadenza ma la decadenza di fatto di questo Parlamento

Con quei numeri sul tabellone di Montecitorio dopo la votazione finale — 553 sì, 14 no, 2 astenuti — e col clima che c’è nel Paese contro la cosiddetta casta, e tutto ciò che può a torto o a ragione assomigliarle, con e pure senza l’aiuto degli spettacoli in piazza, davanti allo stesso Montecitorio e altrove, tra striscioni, forbici e poltrone da rottamare, presente quello stesso Luigi Di Maio che l’anno scorso, di questi tempi, si affacciò al balcone di Palazzo Chigi come vice presidente del Consiglio e pluriministro per annunciare gioiosamente e prematuramente addirittura la fine della povertà; con tutto questo, ripeto,  c’è francamente ben poco da dire, e tanto meno da scommettere su un referendum che possa riesumare i 345 seggi parlamentari tagliati fra Camera e Senato.

TAGLIO DEI PARLAMENTARI, STESSO ERRORE DI TRENT’ANNI FA

Ciò non toglie tuttavia — e se ne accorgeranno prima o poi anche molti di quelli che hanno festeggiato e continueranno a farlo nei prossimi giorni — che si è ripetuto con i tagli ai seggi parlamentari lo stesso errore compiuto una trentina d’anni fa con i referendum e poi con le leggi ordinarie per passare dal sistema elettorale proporzionale al sistema via via più o meno maggioritario.

L’errore comune alle due imprese è quello di pretendere di poter costruire la casa cominciando non con le fondamenta ma con il tetto. Si volle passare al sistema maggioritario senza mettere mano, prima o quanto meno contemporaneamente, ad una Costituzione pensata ed approvata per un Parlamento da eleggere col sistema proporzionale.

Pertanto, cestinata la prima nelle Procure, abbiamo assistito per tutta la cosiddetta seconda e terza Repubblica, che molti considerano già cominciata da tempo, alla sostanziale finzione dei governi e dei loro presidenti eletti direttamente dal popolo, con tanto di schede contenenti i nomi dei candidati a Palazzo Chigi, ferma restando la prerogativa costituzionale del capo dello Stato di nominarli  a quel posto e di sostituirli ad ogni esplosione di crisi senza necessariamente ricorrere a nuove elezioni.

LE CONSEGUENZE PER I SOSTENITORI DEL MAGGIORITARIO

Il governo in carica, pur a presidente del Consiglio fortunosamente invariato, ne è la prova vivente, così come lo era il precedente, essendo stato formato da Giuseppe Conte senza essere stato proposto agli elettori in quella veste, e composto da partiti furiosamente contrappostisi nella campagna per il rinnovo delle Camere alla scadenza ordinaria del loro tormentatissimo mandato, in cui si erano avvicendati altri tre governi — di Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni — per niente proposti agli elettori. O sbaglio? Non credo proprio di stare raccontando fantasie, menzogne e quant’altro.

I sostenitori del cosiddetto sistema elettorale maggioritario, in tutte le sue gradualità o varianti, non potevano francamente gestire e servire peggio la loro causa, così come temo — per la salute del Paese e della democrazia — saranno costretti ad ammettere i sostenitori oggi festanti del Parlamento light, diciamo così, alleggerito di 115 senatori e di 230 deputati, per un totale di 345 persone.

Gli altri tentativi, peraltro tutti falliti, di ridurre il numero dei parlamentari furono almeno compiuti nell’ambito di riforme costituzionali più o meno organiche, distinguendo anche i compiti delle due Camere per evitarne la sovrapposizione, nella consapevolezza quanto meno che non si può costruire cominciando dal tetto, come dicevo.  Questo tentativo no, è stato compiuto proprio cominciando dal tetto e rinviando ad altri momenti il resto pur riconosciuto necessario, bontà di lor signori, e indicato nei titoli — non più dei titoli — delle leggi costituzionali e dei regolamenti parlamentari da predisporre e approvare.

“Facciamo a fidarci”, si sono detti praticamente i grillini, portando a casa subito ciò che volevano per soddisfare lo spirito anti-casta su cui sono nati e cresciuti, e i loro nuovi alleati di governo rinunciando all’opposizione praticata ai tagli dei seggi parlamentari nei precedenti passaggi al Senato e alla Camera. Si fa presto a fidarsi quando si è appena fatto un governo e non si ha naturalmente voglia di disfarlo immediatamente per la paura di ritrovarsi in condizioni peggiori davanti allo stesso pericolo, quello delle elezioni anticipate, appena evitato, con la presunzione peraltro dichiarata di durare per tutto il resto della legislatura, sino alla scadenza ordinaria del 2023.

I GUAI PER I GRILLINI

Il guaio è, per lor signori, a cominciare dal presidente del Consiglio, affrettatosi nell’aula di Montecitorio a felicitarsi col suo ex vice ma ugualmente capo ancòra in carica del maggiore partito della coalizione, nonché ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che quanto più si dovesse mettere davvero mano alle modifiche costituzionali, legislative e regolamentari imposte — per loro stessa ammissione — dal taglio dei parlamentari, tanto più si avvicinerebbe non la scadenza ma la decadenza di fatto di questo Parlamento. Che già vive — non dimentichiamo neppure questo — nella non felice condizione di rappresentare un quadro politico — quello uscito dalle urne del 4 marzo 2018 — letteralmente sconvolto dai risultati delle elezioni europee del 24 maggio scorso e dalle precedenti, non poche né irrilevanti elezioni regionali.

Giuseppe Conte ai guai che già ha di suo, con la vicenda poco edificante dei servizi segreti messi a disposizione di un altro paese, per quanto alleato, su cui dovrà riferire al Comitato parlamentare di controllo appena si insedierà il nuovo presidente, ha aggiunto -volente o nolente- con l’approvazione dei tagli parlamentari la scomodità di trovarsi un pò nei panni di Bertoldo. Che trascorreva il suo tempo cercando l’albero al quale lasciarsi appendere da chi lo aveva condannato. In quelle condizioni si può tirare a campare, non certo a governare, anche se il compianto Giulio Andreotti preferiva tirare a campare piuttosto che tirare le cuoia, come disse una volta a un impaziente e critico Ciriaco De Mita.

 

TUTTI I GRAFFI DI DAMATO

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER
Back To Top