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La malattia delle palestre lombarde: il 35% rischia di fallire per Covid
Solo a Milano, nel 2019, erano censite 5.200 attività con 17.000 addetti. Con il Covid la maggior parte delle palestre lombarde chiuse da mesi per volontà dei Dpcm governativi e ora il 35% rischia di non riaprire nell’indifferenza dello Stato
Chiuse da mesi senza alcuna speranza concreta di riaprire. Sono le palestre e le piscine lombarde, ad alto rischio di fallimento per via delle restrizioni per il Covid. Mantenere palestre e piscine non è facile: servono locali enormi e gli affitti in città, è tristemente noto, sono carissimi. In più ci sono stati gli abbonamenti annuali e mensili da rimborsare. Secondo i dati di Confcommercio, circa il 35% potrebbe non riaprire le proprie porte ai clienti una volta passata la tempesta.
LA LENTA AGONIA PER COVID DELLE PALESTRE LOMBARDE
“Andando avanti così – dichiara il direttore di A.R.I.S.A., l’Associazione regionale delle imprese del settore (aderente alla Confcommercio milanese), Paolo Uniti – stimiamo che i bilanci del 35% delle imprese sono a forte rischio e molte di esse non riusciranno ad arrivare a primavera. Con pesantissime ripercussioni anche in termini occupazionali”.
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“Ancora più drammatica la situazione delle oltre 1.000 piscine lombarde – gli fa eco Angelo Gnerre, delegato A.R.I.S.A. per il settore impianti natatori – ed uso come metafora la scala Richter per i terremoti: il magnitudo di riferimento per le piscine sarebbe 10 con un conseguente tsunami per i bilanci delle nostre aziende 2021: le proiezioni più ottimistiche ci fanno stimare un calo del 50% con possibili ripercussioni anche nel 2022”.
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Sempre secondo i calcoli di A.R.I.S.A., le palestre lombarde prima del Covid rappresentavano una industria fiorente. Basti pensare che proprio la Lombardia “era” la Regione d’Italia che, da sola, rappresentava il 37% delle imprese operanti nel fitness con più di 25 mila tra centri benessere e palestre (su un totale nazionale che, prima della pandemia di Coronavirus, ne annoverava globalmente circa 70mila). Solo nella Città Metropolitana di Milano, nel 2019, si contavano 5.200 attività che davano lavoro a 17.000 addetti: la quasi totalità ora è in cassa integrazione a carico dello Stato, ma cosa succederà a fine marzo quando cesserà?